PALERMO: GIORGIO VASTA “Spaesamento” (Laterza”
Palermo città della sete e città vegliata dai ragazzini. Come sentinelle, sparse lungo uno spazio che fa della loro infanzia un’apparizione ricorrente, vagano ciondolando, corpi tra gli altri corpi, sospesi in un’atmosfera da coscienza allucinata che ha il volto della città del Politeama. Sono due tra le molte impressioni che lascia il racconto di Palermo ( e “su “ Palermo) fatto da Giorgio Vasta nel suo ultimo libro. La città siciliana si trasforma in cronotopo assoluto e però è anche una precisa allegoria della storia italiana contemporanea. La scrittura, sempre con forti risonanze, immagini e squarci meditativi, diventa la corda tesa tra pazzia e razionalità, tra il vuoto dei discorsi e il piombo del silenzio omertoso o indifferente che sembrano soffocare Palermo. A questa vacuità e opacità, la scrittura risponde con una sfida fatta di coincidenza intima e materia, non spiegazione, ma corpo vivo nello spaesamento.
“Spaesamento” è proprio il titolo scelto da Giorgio Vasta per il suo reportage intimo e politico, narrazione della città delle sue origini, con l’occhio che guarda nelle pieghe in cerca di ombre che conosce, con la disillusione di chi vive anche altrove e vede che razza di apocalisse anarchica sia diventata – o sia sempre stata? – la città dell’ infanzia. Radici e spaesamento, sono le due forze che si scontrano, tra fondamento e fuga, producendo quella che è la materia prima, il propellente principale per uno scrittore: non l’odio, non l’ amore, soltanto meraviglia.UN sentimento di mezzo, come terra di mezzo è Palermo, “soglia evanescente, terra di nessuno nella quale pubblico e privato si fanno incerti e la loro indistinguibilità è metafora solo leggermente attenuata dell’eterna indistinguibilità locale tra legale e illegale, il perfetto oblìo palermitano del discrimine tra le cose”. … In questa descrizione di un bar, sta forse tutta la Palermo di Vasta. E’ una delle scene più belle e tese, come tutto il libro nello stile denso, rigoroso, mentale e sensuale che ha imposto Vasta come uno dei nostri migliori scrittori. Una scena da western metafisico, con lo scrittore che entra in un locus di cui non capisce entità, abitato da figure silenziose, che rispondono a cenni al tentativo di comprare una bottiglietta d’acqua (onnipresenti nel libro, acquistate quasi come gesto apotropaico ).
Palermo si definisce in tutti suoi luoghi, come parti per il tutto: la spiaggia, dove la privacy non è prevista, dove i corpi si spiano ravvicinati, dove una sensuale ribattezzata “donna cosmetica”, sta silenziosa e solare, femmina totale, sotto gli occhi di tutti e del narratore, desiderata e indagata de lohn, emblema di una femminilità post-moderna e antica, disinvolta e obbediente a mammà, sensuale nell’ “incoscienza perfettamente consapevole del proprio corpo”. Insomma, forse un’incarnazione di Palermo. Piena di contraddizioni, quella donna come Palermo è dentro il mio cervello” perché “ E’ il mio cervello”.
Palermo è desiderio, ma pure è respingimento, straniamento: le vie, i bar, senza arredi tipici, le sedie in vimini svuotati nel perfetto e design anonimo e mediocre di tutti i bar italiani.Così via Libertà, rivoluzionata da luogo del passeggio e della sosta a luogo di shopping, che siano i tanti angoli irriconoscibili, come altri bar, malfamati o eleganti (il bar è il vero teatro di umanità per lo scrittore ), così il mercato del Capo, ecc. Insomma Paleremo mostra una mutazione, ma pure in certi altri luoghi qualcosa di carnale, misterioso dove sopravvive la minaccia ma pure l’identità la sua specificità locale, una malapatria da maledire e da salvare, da cui allontanarsi ma in cui ritrovare uno sguardo meridiano e sottile con cui ora lo scrittore-figlio penetra la sua malamatria.
Giorgio Vasta a Palermo riparte per questo viaggio dalla sua cameretta, dalla decadenza di una casa che mostra nei piccoli guasti un tempo irrimediabilmente passato. Nell’ indistinto tra sogno e memoria, televisione e immaginazione, tutte le immagini segnalano la malattia in cui affonda la città, uno stato di indistinzione, così come tutto il libro diviso tra resoconti precisi e scene affogate in luce onirica, come le dense pagine finali, in cui i personaggi dei suoi incontri si ritrovano in un convivio per piegare e spiegare la amteria di cui è fatto il sogno di una città. Di songo sono fatti anche i ricorrenti incontri con dei ragazzini: simboli della storia che si ripete, stanno alla fontanella della spiaggia, appostati per giocare ai picciotti che chiedono un pizzo, ma per finta – ma come per davvero Vasta consegna loro denaro invisibile. La violenza è un codice linguistico che a Palermo si impara come l’alfabeto, giocando.
Giorgio Vasta si muove tra natura e cultura per calmare la sua sete fisica e il suo disorientamento morale di fronte ad una città che sa essere difficile ma che non riconosce proprio per il fatto che il peggioramento è dovuto al suo esser diventata più italiana. Forse anche per il contrario, perché, “la palma” come diceva Sciascia, ha le radici a Palermo ma le foglie ormai toccano Milano.. Paleremo è italiana nei suoi bar diventati trendy, nel domino dell’abbigliamento, nel ciao e nel tu che i commessi impongono, nel precipitare irrigidito dell’ happy hour lei che ha sempre goduto di una felicità selvaggia distribuita fino all’eccesso in tutte le ore del giorno e della notte. E’ il suo essere attuale ciò che genera spaesamento. Vasta sa cogliere i segni di una mutazione antropologica che ancora dura, non finita, nonostante Pasolini l’abbia colta più o meno quando Vasta nasceva, quaranta anni fa. Eccola l’indistinzione – o omologazione – italiana: nei dark emo parcheggiati in piazza Politemama, eccola nei due uomini, uno anziano e l’altro giovane, dietro l’ennesimo bancone a servire l’ennesima bottiglietta d’acqua, sintetizzata nel colpo di fioretto stilistico a cui Vasta ci ha abituato: il vecchio è barista ma il giovane è invece barman. Stesse funzioni, essenza diverse, il tempo storico è uno slittamento linguistico.
Eppure anche segni di mutamento, che cuiscono lo spaesamento, come la libertà indifferente degli Emo ai commenti grevi su di loro. Accettare il sopruso proprio perché più intelligenti. Questo il nuovo inferno palermitano e italiano. MA la città maniene il contatto con il suo sottosuolo di ombre, perfettamente a suo agio nell’Italia di oggi perché forse questa a sua volta somiglia molto alla città dei Beati Paoli, alla terra in cui visibile e invisbile si scambiano posto, in cui la mafia che è dappertutto, in realtà ”non esiste” – e Vasta infatti non la nomina mai.
Palermo è tale perché non è neppure più confinabile nei suoi difetti. Sulla spiaggia viene eretto( per gioco,ancora) un monumento al “niente e tutto” che siamo, una grande scultura di lettere che, scoprirà Vasta assieme compongono il nome BERLUSCONI: è ormai “Berlusconi” un collante nazionale, nell’essere nome, parola magica, simbolo dell’aria che siamo e che diventa reliquia, tamaturgica per la folla che accorre ad ammirarla, materia, mania resa concreta e la tempo stesso fatta della stessa materia di cui sono fatti i nostri incubi: di sabbia, polvere di un fantasma identitario.
Berlusconi è il marchio messo sul prodotto Italia di cui Palermo adesso è parte, la parte per il tutto, come in un immenso deliquio feticista. La vera o vecchia Palermo Vasta la scova in gesti arcaici e misteriosi di una moneta di resto avuta indietro e custodia nella bocca screpolata di una donna silenziosa, in quel bar malfamato del centro storico, raccolta nella saliva e offerta come affronto e battesimo al palermitano-estraneo, “moneta-sputo, dialetto condensato, parola unica palermitana” .
Paleremo è il luogo in cui si rivela ciò che siamo, noi italiani: fatti di “ rarissima gloria e straripante miseria” e in cui “nessuno è assolto dall’umano”. Non c’è infanzia che salva il mondo, e quei ragazzini come soldati del nichilismo sono lì sparsi ovunque. Paleremo è l’Italia ovvero un paese impregnato di un’ incomprensibile felicità dell’infelicità”. Lo spaesamento di Vasta è antropologico e politico, nella scoperta che l’arcaica eterna radice palermitana sia stata inglobata dall’evanescenza dell’apparire berlusconiano: esempio ne è il dialogo dei tre uomini, ancora una volta al bar, a commento delle notizie sulle intercettazioni e sulle avventure eroiche del premier. A questo discorso sovrappongono ammiccamenti ad affari simili e poco chiari: in questi discorsi i tre mostrano la “penombra cognitiva” nella quale si determina il nostro senso delle cose, ormai omologato anche nelle frasi che si pronunciano (“Chi mi dà il numero?” dice Saccà a Berlusconi negli articoli che Vasta legge al bar e immediatamente sente uno dei tre dire all’altro “chi mi dà il numero?”).
Palermo è l’Italia così come “berlusconi è berlusconi”. Tautologia e paradosso: nella conversazione che dall’attualità crolla nel consueto cazzeggio a sfondo sessuale tipico dell’italiano medio, i tre uomini del bar mostrano l’essenza del paesaggio umano e il passaggio storico che viviamo: lo “sbracamento”, rivendicato anche con orgoglio. “La nostra regressione è l’evoluzione”, nel paradosso nell’equilibrio degli opposti: un “paese a somma zero” “un paese incerto”, in cui un’affermazione contiene la sua smentita. Il risultato potrebbe essere di questo passo l’autodistruzione.
Il paese Italia è Palermo, nel restare corpo immobile, putrefatto e ottuso come l’odore di piedi che invade all’improvviso il bar: i tre uomini si sono tolti le scarpe e Vasta li guarda, non protesta come dovrebbe fare un cittadino in un contesto di convivenza civile: Vasta non reagisce: “mi faccio complice al silenzio, questo mio silenzio, fa parte del discorso”. Questo silenzio è quel che parla Palermo. L’Italia è la prosecuzione di Palermo con gli stessi mezzi”.

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