Vasugupta

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Vasugupta (Kashmir, VIII secoloIX secolo) è stato un filosofo e mistico indiano.

Quasi nulla conosciamo della vita di Vasugupta, e di lui ci è giunta, con certezza, un'unica opera, gli Śivasūtra, testo fondamentale delle tradizioni śaiva del Kashmir.

Indice

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Vita e opere [modifica]

Come riferito da Kṣemarāja e da Bhāskara, autori di due fra i più autorevoli commenti agli Śivasūtra (Śivasūtravimarśinī e Śivasūtravārttika rispettivamente), Śiva, apparso in sogno al suo seguace Vasugupta, gli affidò il compito di diffondere nuovamente nel mondo la dottrina del non-dualismo. Seguendo le indicazioni di Śiva, prosegue Kṣemarāja, Vasugupta si recò sul monte Mahādeva (il monte del Gran Dio) e qui, su una lastra di roccia, rinvenne i 77 aforismi che costituiscono gli Śivasūtra, o "aforismi di Śiva", così come il Dio stesso li aveva incisi.[1][2]

Occorre menzionare che viene attribuita a Vasugupta anche la paternità della Spandakārikā, opera della quale sarebbe invece più probabilmente autore Bhaṭṭa Kallaṭa, allievo del nostro.[3]

Śivasūtra [modifica]

La tradizione śaiva aveva, nel Kashmir, radici molto profonde, ma già da tempo l'antica filosofia era stata offuscata da nuove concezioni, soprattutto quelle della scuola buddhista facente capo a Nāgobodhi e quelle di dottrine dualiste. Vari sono, negli Śivasūtra, i riferimenti a quei principi messi in discussione da tali scuole; nel suo commento, Kṣemarāja addita senza mezze parole i materialisti, i religiosi seguaci dei Veda, i logici, i cultori del vuoto, gli Yogācāra e i Mādhyamika.[3]

È questo dunque lo spazio nel quale Vasugupta si muove: ripristinare la dottrina śaiva della non dualità: gli Śivasūtra si inseriscono quindi nella vasta corrente degli Āgama advaita. In linea con la gran parte dei tantra, l'opera non ha intenti dottrinali ma orientativi: i suoi sūtra indicano, mostrano un tracciato per l'adepto, molti non sono affatto di immediata comprensione, alcuni restano enigmatici.[3]

Gli Śivasūtra sono suddivisi in tre sezioni, che Kṣemarāja così definisce: la natura dei mezzi divini, la natura dei mezzi basati sulla Potenza, la natura dei mezzi individuali. La numerazione nei due commentatori sopra citati non è la stessa, a causa di diverse suddivisione di uno stesso sūtra (più uno che esiste soltanto in Bhāskara, che ne conta quindi 78).[3]

L'opera si apre col sūtra[4]:

« caitanyam ātmā »
(Śivasūtra, I, 1)
  • «Il sé è coscienza» (nella traduzione di Raffaele Torella)
  • «Il sé è coscienzialità» (nella traduzione di Raniero Gnoli)
  • «La suprema coscienza è la realtà di ogni cosa» (nella traduzione di Swami Lakshmajoo)
  • «Fonte di ogni percezione è il Sé» (nella traduzione di Dario Chioli)

Il Sé, o la realtà, non è dunque né corpo né anima (soffio vitale o prāṇa), né intelletto e nemmeno vuoto, ma solo e soltanto il fatto di avere conoscenza (da cetayate: conoscere), cioè l'essere coscienti (cetana), quindi: coscienza.[1]

Secondo l'orientalista Raffaele Torella, quattro sono i nuclei innovatori dell'opera:
1) La concezione di un 'quarto stato' oltre i tre della veglia, del sonno con sogni, e del sonno profondo: è lo stato in cui si entra in contatto con la Coscienza Suprema (Śiva medesimo). È solo in questo stato che si può recuperare il mondo fenomenico nella sua interezza:[3]

« Nei tre deve essere versato come olio di sesamo il quarto (III.20) »

Infatti, secondo la pura dottrina, il mondo non è illusorio, ma soltanto un riflesso del reale, ed è quindi pienamente fruibile dal suo centro, che è Coscienza.[3]

2) La cessazione di ogni distinzione fra sacro e profano. Quando si è conseguita l'identificazione con la Coscienza, tutto diviene sacro, tutto diviene profano:[3]

« Il sussistere della forma corporea costituisce l'osservanza religiosa (III.26) »
« Il comune parlare è recitazione di mantra (III.27) »

3)

« Il mantenimento e la dissoluzione (III.31) »

Śiva emana, mantiene, riassorbe, dilegua e infine torna alla grazia: nella corrispondenza che sempre sussiste fra i piani cosmologico e del microcosmo, questo dinamismo è anche dell'uomo, che dopo aver 'creato' una realtà emotiva, deve essere in grado di dissolverla, e quindi conseguire la 'grazia'.[3]

4) La comparsa di un aspetto destinato successivamente ad avere importanti sviluppi col sinonimo di camatkāra (stupore): vismaya (meraviglia). La meraviglia è una caratteristica di chi è illuminato, di chi ha preso coscienza del Sé, di chi è giunto a percepire il mondo, e quindi l'altro, in sé.[3]

Note [modifica]

  1. ^ a b Kṣemarāja, in Vasugupta, 1999.
  2. ^ Ancora oggi la roccia nota come Shankaropal, o Roccia di Śiva, è meta di pellegrinaggio, come riporta il sito dedicato a Swami Lakshmajoo (vedi collegamenti esterni).
  3. ^ a b c d e f g h i Torella, in Vasugupta, 1999.
  4. ^ Nella trascrizione secondo l'Alfabeto internazionale per la traslitterazione del sanscrito.

Bibliografia [modifica]

  • Vasugupta, Gli aforismi di Śiva, con il commento di Kṣemarāja, a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999.

Traduzioni [modifica]

  • Jaideva Singh, Siva Sutras. The Yoga of Supreme Identity. Text of the Sutras and the Commentary Vimarsini of Ksemaraja, translated into English with Introduction, Notes, Running Exposition, Glossary and Index, Motilal Banarsidass, Delhi, 1979.
  • Siva-sutra di Vasugupta e Paramarthasara di Abhinavagupta, traduzione e commento a cura del Gruppo Kevala, Asram Vidya, Roma, 1987.
  • Sivasutra et Vimarsini de Ksemaraja, Traduction et introduction par Lilian Silburn, Institut de civilisation indienne, Paris, 1980.
  • Testi dello Sivaismo: Pasupata Sutra, Siva Sutra di Vasugupta, Spanda Karika di Vasugupta con il commento di Kallata, a cura e traduzione di Raniero Gnoli, Boringhieri, 1962.
  • The Aphorisms of Siva. The SivaSutra with Bhaskara's Commentary, the Varttika, translated with exposition and notes by Mark S. G. Dyczkowski, State University of New York Press, 1992.

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