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Jürgen Habermas (1929 - è ancora vivo)

Jürgen Habermas è uno dei nomi più ricorrenti negli articoli e nei saggi filosofici degli ultimi trentanni del secolo scorso ed anche dopo il 2000. Se la sua produzione è immensa, la letteratura su di lui è di mole difficilmente quantificabile. Bene o male, come bersaglio polemico o come punto di riferimento, Habermas è dunque un filosofo importante, conosciuto ed apprezzato anche negli Stati Uniti, dove generalmente prevale il sospetto nei confronti di ciò puzza vagamente di marxismo (specie quello critico). Minor fortuna ha avuto solo in Francia, dove il dibattito filosofico e culturale segue spesso logiche molto particolari.
Questa notorietà di Habermas dipende dalla sua originalità. Erede della teoria critica della scuola di Francoforte, in un certo senso ne è il continuatore, mentre, per altro verso, ne risulta anche il critico più lucido e feroce, sia quando assimila, per esempio, il pensiero di Adorno alla corrente irrazionalistica del postmoderno, sia quando denuncia il desiderio di Marcuse di una scienza alternativa a quella reale come cattiva utopia.
Alla luce di quanto si è visto finora, si può condividere la breve ricostruzione che offre Franca D'agostini in Analitici e continentali: ci sono state, nel secolo scorso, tre diverse fasi del lavoro di Habermas. La prima si svolse negli anni '60, durante i quali egli prese su di sé l'onere di continuare la teoria critica della Scuola di Francoforte proprio nel momento della sua massima crisi e dell'involuzione del pensiero di Max Horkheimer. In questo periodo egli fu per qualche tempo "marxista", ma è notevole scoprire che produsse una serie di contributi ad un esame storico della razionalità anche nella sua giovanile stagione pre-marxista.

La seconda fase caratterizzò l'impegno di Habermas negli anni '70, e si svolse lungo una linea, da lui stesso definita come teoria dell'agire comunicativo. In tale periodo Habermas si confrontò criticamente in particolare con la corrente ermeneutica, ricevendo tuttavia numerosi spunti sia da Noam Chomsky che da Searle.

La terza fase (anni '80) portò Habermas a contrastare apertamente il postmodernismo, schierandosi per una difesa della razionalità, anche se in termini critici, una razionalità universale contrapposta alla presunta razionalità del dominio, identificata tout-court con la "ragione" filosofica e scientifica. Riprendeva così il filo del ragionamento dei suoi anni pre-marxisti.

In generale, salvo l'importante Conoscenza ed interesse del 1968, Habermas non aveva mai affrontato sistematicamente questioni teoretiche fondamentali, limitandosi ad insistere sui temi etici e politici che mantenevano al centro la problematica della liberazione in una visione democratica. Con gli scritti raccolti in Verità e giustificazione (Laterza 1999) il lungo lavoro di esplorazione pare tornare al punto di partenza. Ecco allora un Habermas IV.
Lo coglie ancora Franca D'agostini in una recensione apparsa sul Manifesto. «Verità e giustificazione è un libro importante, per diverse ragioni. Anzitutto perché contiene una messa a punto sulla situazione attuale in filosofia che è di grande aiuto per predisporre un piano comune di discorso. Secondariamente perché Habermas con onestà e pazienza si misura, in questi saggi, con problemi classici ma entro certi termini inaggirabili, condivisi dalla filosofia contemporanea, ma anche dal pensiero comune, e da quello scientifico; per esempio: come definire i rapporti tra norme e natura? come fare i conti con la presunta impossibilità di una "presa diretta", non mediata linguisticamente, sulla realtà? quale può essere il nesso tra rappresentazione e comunicazione (problema in cui secondo Habermas oggi si gioca la vecchia carta del rapporto tra teoria e prassi)? quale può essere il ruolo della filosofia nel mondo contemporaneo?» (1)

Non si era ancora spenta l'eco di questo ritorno che apparve nel 2002 Il futuro della natura umana, edito da Einaudi. La bioetica diviene così l'ultimo terreno di confronto di questo grande maestro di razionalità. Ancora D'Agostini, puntualmente, sulle colonne del Manifesto, intervenne con una recensione: «L'idea di fondo dell'autore è che la casualità della nascita deve essere in linea di principio preservata, deve cioè rimanere come lui dice "indisponibile". La modificazione genetica è legittima con scopi terepautici, è cioè accettabile la cosiddetta genetica negativa, che toglie e scongiura le malattie ereditarie, non la genetica migliorativa e pianificante, o lo "shopping in the genetic supermarket.» (2)
Simili posizioni non potevano che sfociare in un interessante confronto con l'intellettuale teologo Joseph Ratzinger, quando questo non era ancora diventato Benedetto XVI.
Il loro incontro avvenne il 19 gennaio scorso, sul podio della Katholische Akademie in Bayern, a Monaco di Baviera, sui grandi problemi della scienza e della vita, ma anche della religione e dello stato democratico moderno. I rispettivi discorsi sono stati prontamente tradotti per la Morcelliana, che ha stampato un libro nella collana del "Pellicano Rosso" intitolatoEtica, religione e stato liberale.

Brevissimi cenni biografici
Jürgen Habermas nacque a Gummersbach il 18 giugno 1929. Figlio del direttore della locale Camera di commercio, da adolescente fu costretto a indossare l'odiata camicia bruna ed a marciare nelle file della "Gioventù hitleriana". Si laureò nel 1954 a Bonn con una tesi su Schelling. Lavorò quindi come giornalista, occupandosi prevalentemente delle tendenze sociali e intellettuali del suo tempo. Nel 1956 divenne assistente di Theodor Adorno all'Istituto di Francoforte. Successivamente, nel 1962, ricevette un incarico di professore di filosofia presso l'Università di Heidelberg.
Nel 1964 tornò a Francoforte come professore di sociologia e filosofia e quattro anni dopo pubblicò il saggio Scienza e tecnica come ideologia, mentre il movimento di protesta studentesco raggiungeva il suo culmine. Habermas criticò l'ala estremistica del movimento, accusandola persino di "tendenze fasciste" nel senso di irrazionali, e comunque vide lucidamente che l'illusione di alcuni leader di vivere una situazione pre-rivoluzionaria era del tutto sbagliata.
Nel 1968 pubblicò Conoscenza e interesse. Nel 1970 uscì Logica delle scienze sociali.
Nei quattro anni dal 1971 al 1983 fu direttore, con C.F.von Weizsäcker, del Max Planck-Institut di Starnberg. Dal 1974 fino al 1980 operò studi sull'evoluzione sociale e la psicologia dello sviluppo, che lo condussero alla pubblicazione dei due volumi Teoria sull'agire comunicativo nel 1981. Dal 1982 tornò ad insegnare nuovamente filosofia a Francoforte. l'anno successivo pubblicò L'etica del discorso, altra opera considerata fondamentale perché contenente la proposta di un principio universale di pragmatizzazione che trasformava l'imperativo categorico di Kant da norma individuale in una possibilità di intesa intersoggettiva.
Nel 1985 pubblicò Il discorso filosofico della modernità; un anno più tardi intraprese un progetto di ricerca sulla filosofia del diritto e la teoria della democrazia. Nel 1988 uscì Il pensiero postmetafisico. È dal 1994 professore emerito a Francoforte e alla Northwester University di Chicago.

Pre-marxismo e marxismo: delusioni da Heidegger e da Horkheimer
Habermas incontrò il marxismo alla libreria comunista di Gummersbach, nel clima della guerra fredda, della divisione tra Est ed Ovest, in un periodo nel quale i comunisti erano visti come "orchi" in quasi tutto il mondo al di qua dell'Elba. Quando arrivò a Francoforte, scoprì che Horkheimer aveva sepolto tutti i vecchi testi dell'Istituto in cantina, come per nascondere un passato vergognoso. Nel frattempo, tuttavia, era anche accaduto qualcosa di importante nel mondo della filosofia tedesca. Nel 1953 Martin Heidegger aveva dato alle stampe Introduzione alla metafisca, contenente lezioni del 1935. In quel testo si riproponeva, senza alcun accenno autocritico, un passaggio che richiamava "l'interna verità e grandezza del nazionalsocialismo"- Ciò turbò fortemente Habermas, che in Heidegger aveva visto un decisivo punto di riferimento per la filosofia. Così, senza indugio, Habermas stese uno dei suoi primissimi articoli per la Frakfurter Allgemeine Zeitung, nel quale stigmatizzava Heidegger con parole roventi. Non si può essere filosofi se non si ha il minimo senso autocritico e la dignità morale di ripudiare gli errori tragici del passato.
Se ben si guarda, Habermas venne a trovarsi, nel breve volgere di pochi anni di fronte a una situazione moralmente insoddisfacente da parte dei due filosofi viventi che egli maggiormente stimava. Un Heidegger senza pudori ed un Horkheimer abbattuto, umiliato, che nascondeva con una miserabile foglia di fico le sue passate riflessioni, senza nemmeno provare a giustificarle.
Prima di arrivare a Francoforte, Habermas non era ancora marxista, sebbene avesse già una intima familiarità con opere come Storia e coscienza di classe di Lukàcs.
Ancora nel 1955 rimproverava a Marx di "non aver colto esattamente la problematica del moderno", asserendo che l'estraniazione non è solo materiale, non è solo dovuta all'espropriazione del lavoro prodotto socialmente da parte dei capitalisti, ma è anche dovuta alla tecnica come tale, riprendendo così un tema chiaramente heideggeriano, seppure riproposto in termini del tutto nuovi. Habermas, infatti, cominciava a distinguere tra diverse razionalità, e vedeva come il moderno non fosse il prodotto di una sola razionalizzazione, ma il risultato dialettico di un confronto tra diverse razionalità, in particolare quella tecnica, quella economica e quella sociale.
«Ma in che modo - scrive Stefano Petrucciani - si deve pensare il nesso tra i vari aspetti del processo di razionalizzazione? E in che modo devono essere indirizzati per limitare l'alienazione del lavoratore nella grande industria? La risposta di Habermas è molto chiara:così come talvolta ciò che è razionale dal punto di vista tecnico non lo è dal punto di vista economico, allo stesso modo non tutti i progressi della razionalità tecnica ed economica sono razionali dal punto di vista sociale; la pretesa di spingerli avanti indefinitamente senza tener conto delle esigenze umane, fisiche, psicologiche e sociali del lavoratore si rivela essa stessa irrazionale, controproducente ai fini stessi della produttività.» (3)
Ciò che Habermas ha in testa, ovviamente, è razionalità tecnica ed economica devono essere al servizio della razionalità sociale, non viceversa.
Tralasciando molti passaggi della sua evoluzione giovanile, si può dire che Habermas giunse al marxismo privilegiando il Marx "filosofo", critico dell'alienazione, e prendendo le distanze dal marxismo ortodosso. «La filosofia della rivoluzione, sostiene Habermas, riprendendo le tesi del giovane Marx, è allora il doppio movimento, del filosofizzarsi del mondo e del mondanizzarsi della filosofia.» (4)
«La soppressione rivoluzionaria dell'alienazione è al tempo stesso il superamento dell'ideologia intesa come la "non-verità esistente", ed è quindi produzione di verità e razionalità.» Se questo impianto sembra più vicino a Lukàcs che ad Adorno, è però vero che Habermas si differenzia notevolmente anche da Lukàcs. Rispetto al ruolo della "classe" operaia, che nel filosofo ungherese rimane centrale come soggetto-oggetto del cambiamento rivoluzionario, Habermas privilegia il ruolo dell'individuo, il suo esserci come persona, soggetto pensante. L'uomo, secondo Habermas, non può essere trattato come una cosa, ridotto a merce, semplicemente perché è un essere che ragiona ed ha il linguaggio.
L'essere parte di una classe trattata come merce diventa quindi motivo per un rapporto dialogico, cioè di dialogo intersoggetivo. Ed è già in questo passaggio che si delinea il futuro Habermas.

La critica a Marx e la teoria bidimensionale dell'evoluzione sociale
La prima parte di Conoscenza ed interesse è dedicata ad un esame del rapporto di continuità tra Marx ed Hegel. Nei Manoscritti del 1844 Marx prosegue la Fenomenologia hegeliana sottolineando come l'uomo reale sia il risultato del proprio lavoro. Questo proprio lavoro è considerato da Marx determinante nel processo di autoproduzione storica dell'umanità. Questa tesi, sostanzialmente monistica, va rivista, perchè i mutamenti del processo di produzione non spiegano totalmente ed integralmente i mutamenti sociali e culturali. La "trasformazione della scienza in macchinario non in nessun modo eo ipso come conseguenza la liberazione di un soggetto totale autocosciente". Sicché, bisogna comprendere che "l'auto costituzione del genere umano si compie non solo nel contesto dell'agire strumentale dell'uomo nei confronti della natura, ma al contempo nella dimensione di rapporti di potere che stabiliscono le interazioni degli uomini tra loro". Per comprendere il mutamento storico occorre quindi un riferimento più ampio rispetto alla sola sfera produttiva e dello scambio. Nel '68, Habermas non parlava ancora di differenza tra "agire strumentale" e "agire comunicativo". Tale concettualizzazione verrà introdotta nel decennio successivo.

Superare la "gabbia d'acciaio" Alla ricerca di un concetto di razionalità veramente razionale
Ripigliando da capo il confronto con il "marxismo occidentale", Lukàcs e Korsch in primis, Habermas nota che il compito della teoria era diventato quello di dare una risposta alla sfida lanciata da Max Weber, secondo il quale la razionalizzazione (economica, burocratica e scientifica) rinchiude necessariamente la società in "una gabbia d'acciaio". Nemmeno una riorganizzazione socialista del modo di produzione potrebbe portare al superamento della gabbia. Osservando la società stalinista era logico sprofondare nel pessimismo più nero. Aveva ragione Weber o c'era una via d'uscita?
Questo fu il vero problema di Habermas. Perciò egli muove da una critica di tutte le filosofie che hanno assunto un atteggiamento oggettivistico e privo di autoriflessione,come l'empirismo logico, cioè il neopositivismo. A suo avviso tale oggettivismo è ideologico, in senso marxiano, perché nasconde e sopprime il rapporto tra conoscenza e interesse.
Quando nell'empirismo logico,ad esempio quello di Carnap, le scienze empiriche ricorrono all'osservazione, abbiamo un'osservazione che non osserva i fatti. Questi sono filtrati da una precedente organizzazione della nostra esperienza dell'agire strumentale, e questo, per altro aspetto, era già la convinzione della dei neo-kantiani di Marburgo, da Cohen a Natorp, fino a Cassirer. Per questo, i protocolli dell'empirismo logico non sono la riproduzione dei fatti, ma esprimono piuttosto successi ed insuccessi delle nostre operazioni.
Criticando anche Popper, egli si pone la seguente domanda: "Come si può spiegare il fatto ostinatamente ignorato da Popper che normalmente non dubitiamo affatto della validità di una proposizione protocollare, cioè che gli assunti implicati nelle sue espressioni universali relativi a un comportamento di corpi in tutte le situazioni sperimentali future saranno confermati?" (5)
«In ultima istanza - spiega Habermas - la validità empirica di proposizioni protocollari e così la correttezza o meno di leggi ipotizzate e di teorie empiriche nel loro insieme è riferita a criteri di una specie di successo nell'azione.» (6) Questa è evidentemente una prospettiva pragmatista, che avvicina Habermas a Peirce ed al convenzionalismo. Le scienze empiriche non sono giustificate da una pura conoscenza teoretica, valgono solo alla condizione che si abbia un interesse a disporre tecnicamente delle risorse fisiche e naturali. Questo interesse può anche non esistere nell'individuo singolo, ma appartiene strutturalmente all'umanità, da quando questa ha cominciato a riprodursi attraverso il lavoro. Se questo è vero, se le scienze empiriche sono considerate in grado di produrre conoscenze valide solo nell'ambito di un determinato interesse, è evidente che esse non esauriscono la razionalità.

Dal canto loro, le scienze storico-ermeneutiche si misurano con l'esperienza oggettiva nel linguaggio e sono dirette alla comprensione del senso, la quale, però, è stata ridotta dallo storicismo corrotto del positivsmo ad apparenza oggettivistica. Per recuperare uno spessore critico tali scienze devono essere dirette ad un interesse pratico: compito dell'ermeneutica dev'essere quello di indagare la realtà, ispirandosi ad una prospettiva di possibile intesa intersoggettiva che orienti all'azione.
Per Habermas, vi sono già delle scienze orientate criticamente, capaci di unire interesse teorico a interesse pratico. Un tipo di sapere orientato in tal senso è la critica all'ideologia. Ma Habermas guarda con attenzione anche alla psicoanalisi in quanto essa ha suscitato "un processo di riflessione sulla coscienza" che ha smascherato le incrostazioni della superficie. L'autoriflessione psicoanalitica "scioglie il soggetto dalla dipendenza di poteri ipostatizzati ed è determinata da un interesse emancipativo alla conoscenza." (7) Le scienze orientate criticamente hanno molto in comune con la filosofia. Ciò rivaluta la filosofia stessa, il cui ruolo emancipativo viene rimarcato. «La filosofia tradizionale ha sbagliato nel supporre che l'emancipazione sia già realizzata con la struttura del linguaggio; l'emancipazione è un obiettivo da realizzare, e passa attraverso il linguaggio (luogo.. dell'agire comunicativo), e quindi solo quando la filosofia scopre nel corso dialettico della storia le tracce della violenza che deforma il dialogo continuamente tentato, continuamente spingendolo fuori dai binari di una comunicazione senza coazione, porta avanti il processo, di cui ultimamente leggittima la stasi: il progresso del genere umano verso l'emancipazione.» (8)

«L'esempio di scienza critica - osserva Petrucciani - che Habermas tratta con maggiore ampiezza è quello di psicoanalisi. Nei disturbi che alterano o rendono incongruenti le espressioni simboliche dei soggetti (dagli atti mancati come amnesie e lapsus, fino ai sintomi nevrotici che "distorcono le connessioni simboliche" dei soggetti come parlanti l'analisi legge l'incompleta o distorta manifestazione di momenti della biografia individuale che sono diventati inaccessibili al soggetto stesso, e che si rendono manifesti solo nel generare interruzioni nel flusso ordinario della comunicazione o dell'azione sensata.» (9)
Freud, in sostanza, può rivelarsi utile per portare ad un livello di consapevolezza non solo la critica all'ideologia, ma la violenza inibitoria che l'ideologia stessa ha esercitato sulle coscienze.

Statuto delle scienze sociali
La teoria degli interessi conoscitivi apre a tre possibili approcci metodici. C'è quello delle sceinze empiriche, quello delle scienze ermeneutiche, quello delle scienze critiche. Habermas si chiede in quale ambito collocare la scienza della società. Esaminando vari autori ed approcci, il nostro trova insoddisfacente sia il modello empirico che quello ermeneutico. Nel caso del modello sceintifico causale - lo riportiamo sommariamente - si perde la storicità. L'interpretazione ermeneutica (come analisi del senso di una cultura) sottovaluta le connessioni causali. Quindi occorrerebbe muoversi su un terreno misto e intermedio. Dopo tutto, dice Habermas con un filo di ironia, l'uomo occupa una posizione intermedia tra gli animali e gli dei, e con questa natura ambigua la scienza sociale deve misurarsi. Procedendo su questo intreccio, Habermas non poteva non imbattersi nel problema della commensurabilità, o traducibilità dei giochi linguistici, quindi delle questioni del relativismo culturale. L'alternativa al relativismo potrebbe venire individuando "un quadro categoriale indipendente da ogni cultura", ovvero scovando la struttura dei giochi e superando così l'impasse suscitata da Wittgenstein. Riprendendo Apel (il filosofo che Habermas ha per lungo tempo sentito come il più vicino alla sua sensibilità ed alle sue tematiche), Habermas sottolinea che è importante concepire il linguaggio come una specie di metaistituzione da cui dipendono tutte le istituzioni sociali. Il che lo porta a ribadire che la sociologia non può parzializzarsi nè come sceinza nomologica del comportamento sociale, né come storica dello spirito. Una scienza sociale critica è quella che, da un lato, analizza la società come intreccio di costruzioni oggettive e di rapporti di dominio, dall'altro, esplora il terreno delle interazioni linguistiche orientate all'intesa.

Verso una pragmatica universale
L'inizio degli anni '70 è dunque caratterizzato da una svolta teorica che pone il linguaggio come metaistituzione. Tra i diversi giochi linguistici esiste ben più che una somiglianza di famiglia, come sostenuto dal II° Wittgenstein. La ricognizione delle posizioni di Chomsky e Searle conduce Habermas ad utilizzare la distinzione introdotta dal primo tra competence e performance, dove competence è la conoscenza effettiva che il parlante ha della sua lingua, mentre performance designa l'uso che esso ne fa in situazioni concrete. Occorre quindi ricostruire il sistema di regole che presiede alla produzione ed allo scambio di enunciati, dove la competenza linguistica è la capacità tali regole. «Ciò non vuol dire - osserva Petrucciani - che il parlante competente abbia necessariamente una conoscenza teorica delle regole della sua lingua; egli dispone piuttosto di uno know how, sa distinguere gli enunciati corretti da quelli che non lo sono: compito del teorico è quello di fornire la ricostruzione razionale (rationale Nachkonstruktion) del sistema di regole che il parlante padroneggia praticamente, ovvero è quello di trasformare lo know how in un know that.» (10)

La teoria dell'agire comunicativo
La riflessione di Habermas sfocia così in quell'opera monumentale di oltre 1000 pagine e di difficile lettura che è la Teoria dell'agire comunicativo. Il punto di partenza è l'abbandono del "paradigma del soggetto" a favore di quello intersoggettivo, per il quale "nella comunicazione linguistica è incorporato un telos di intesa reciproca". I quattro motivi principali di tutta l'opera sono indicati in una teoria della razionalità, partendo da Weber; una teoria dell'agire comunicativo che utilizza la dottrina dell'interazione di Mead ed accoglie alcuni spunti di Durkheim; una dialettica della razionalizzazione sociale; un concetto di società infine, che riunifichi teoria dei sistemi e teoria dell'azione.
La tesi di Habermas su Weber è che egli ha "assolutizzato" il concetto di razionalità, non vedendo che i sistemi capitalistici reprimevano quegli elementi che lo stesso Weber aveva collocato sotto il tipo dell'etica della fratellanza. Con Weber, in sostanza, si ha una versione della razionalità unilaterale, che si oppone così al mondo della vita ed ad altre razionalità, come appunto quella sociale.

Agire comunicativo
Come visto, Habermas ha già formulato la distinzione tra agire strumentale e agire comunicativo. Ora deve spiegare cosa sia quest'ultimo per evitare che venga riassorbito come semplice strumento dell'agire strumentale. L'agire comunicativo è per Habermas quella forma di azione attraverso la quale vengono messe in atto le potenzialità di intesa del linguaggio. Ciò avviene quando " i progetti d'azione degli attori partecipi non vengono condizionati attraverso egocentrici calcoli di successo, bensì attraverso atti dell'intendersi". L'agire comunicativo si distingue "per il fatto che tutti i partecipanti perseguono senza riserva i propri fini illocutivi per raggiungere un'intesa che costituisca la base per un coordinamento unanime dei progetti di azione perseguiti di volta in volta in modo individuale". Sicché, mentre le azioni rivolte ad uno scopo tattico o strategico si basano su kantiani imperativi ipotetici, e spesso su spregiudicati calcoli machiavellici, adeguati al fine desiderato, la razionalità di azioni comunicative si basa sulla capacità di conseguire un'intesa razionale.
Nell'agire comunicativo si possono distinguere tre situazioni (che Habermas definisce "tipi puri"): la conversazione, l'agire guidato da norme e quello "drammaturgico". Con la conversazione si mira a conseguire l'accordo razionale su una interpretazione della situazione stessa. L'agire guidato da norme consegue l'accordo riconoscendo validità alle regole stesse. L'agire "drammaturgico" consegue l'accordo attraverso autorappresentazioni veridiche. Habermas ritiene che da qui sia sviluppabile una nuova concezione della razionalizzazione sociale, posto ovviamente che l'amichevole conversazione (espressione nostra) non degeneri in egocentrici scontri tra opposte azioni strumentali.

"E' giusto dare al capitalismo ciò che è del capitalismo"
Secondo Habermas, ma lo era anche secondo Marx, il capitalismo ha effettivamente compiuto, "grazie al suo livello di differenziazione ed alle sue capacità di controllo" risultati positivi, "per lo meno nell'ambito della riproduzione materiale, e li ha tuttora". Comprese le conquiste democratiche. Però oggi si verifica un intervento di "denaro e potere" in ambiti diversi dalla produzione materiale. Questo investimento interviene nella sfera della tradizione culturale, dell'integrazione sociale mediante valori e norme, della socializzazione delle nuove generazioni. «Quando in uno di questi ambiti penetrano i media di controllo, denaro e potere, per esempio per via di una redifinizione consumistica di rapporti, di una burocratizzazione delle condizioni di vita, allora non vengono soltanto stravolte le tradizioni, ma vengono anche attaccati i fondamenti di un mondo della vita già razionalizzato; c'è in gioco la riproduzione simbolica del mondo della vita.» (11)
Questi processi non si adattano più allo schema dell'analisi di classe. «Marx non poté distinguere a sufficienza fra mondi della vita tradizionale, che vengono logorati dai processi della modernizzazione capitalistica e una differenziazione strutturale delle forme di vita che oggi sono minacciate nella loro struttura comunicativa.» (12)
Il conflitto fondamentale del nostro tempo deriva dalla colonizzazione da parte del sistema del mondo della vita. Se il marxismo è dunque insufficiente ad interpretare questa nuova situazione, risultano però del tutto impotenti e radicalmente erronee le teorie postmoderne che rifiutano in blocco l'eredità critica del razionalismo occidentale. Tale critica verrà ripresa e sviluppata nel decennio successivo. Ora, il problema è cercare di provare a dimostrare come l'agire comunicativo possa produrre fecondi risulotati sul piano etico e morale.

Coscienza morale ed agire comunicativo: l'etica del discorso
In Moral Bewusstsein und Kommunikatives Handeln (tradotto in italiano come Etica del discorso) Habermas formalizza la sua idea di principio di universalizzazione.
Le etiche cognitive fanno tutte riferimento al criterio di universalizzazione dell'imperativo categorico che prevede: "agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere divenga una legge universale". Rispetto a questo assunto ormai largamente condiviso, Habermas propone di intendere l'istanza di universalizzazione come principio-ponte, ovvero come criterio direttivo dell'argomentazione morale razionale in grado di conseguire un'intesa.
Per stabilire se una norma sia giusta, questo è il ragionamento di Habermas, dobbiamo chiederci: potrebbe incontrare il consenso di tutti gli interessati?
La risposta si può trovare solo in una formalizzazione che tenga veramente conto di tutti gli interessati.
Ne riportiamo l'esatta formulazione: «ogni norma valida deve soddisfare la condizione che le conseguenze e gli effetti secondari derivanti (presumibilmente) di volta in volta dalla sua universale osservanza per quel che riguarda la soddisfazione di ciascun singolo, possano venire accettate da tutti gli interessati (e possano essere preferite alle conseguenze delle note possibilità alternative di regolamentazione.» (13)
Così espresso, questo principio non può essere inteso come strumento che consente di generare al teorico isolato nella sua torre d'avorio. Questo per diversi motivi, il primo dei quali è che se è giusta la norma che tratta imparzialmente l'interesse di tutti, solo la partecipazione di tutti la può rendere effettiva e condivisa. Il che porta Habermas a rifiutare la logica del giudice imparziale, da intendersi soprattutto come legislatore. Il dialogo politico è necessario perché ognuno, partecipando attivamente, potrebbe convincersi del fatto che i suoi interessi non erano esattamente quelli che credeva. Il confronto di opinioni, in sostanza, non è mai sterile.
Habermas, sposando a questo punto una posizione del tutto liberale e democratica, afferma che è ora di capire che solo il singolo individuo può essere giudice dei suoi interessi, ma è anche ora di capire che è solo con il contributo degli altri che egli può arrivare a comprendere quali siano veramente.
Ritenendo sufficientemente giustificato il principio di universalizzazione (14), Habermas passa poi a formulare il principio D, l'etica del discorso, la quale recita: «possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti ad un discorso pratico.» (15)
Rispetto ad Apel, tuttavia, Habermas non ritiene che tale principio possa trovare una fondazione ultima, non potendo che avere uno statuto fallibile. Il confronto con Apel porta all'uscita del volume Coscienza morale ed agire comunicativo.

Contro il postmoderno ed il revisionismo storico
Tra il 1983 ed il 1985, Habermas tiene un ciclo di lezioni a Francoforte, Parigi e New York aventi per oggetto moderno e postmoderno. Queste sono il preludio al libro Discorso filosofico sulla modernità. Si tratta di un testo che partendo da Hegel, confrontandosi con Gehlen e Luhmann, giunge al postmodernismo. Bataille, Heidegger, Adorno, Foucault, Derrida, pensatori molto diversi, condividono tuttavia un atteggiamento di critica totale della ragione, interpretata semplisticamente come istanza di dominio. Questa critica attraversa sia la contrapposizione di Heidegger al pensiero logico, sia la guerra al logocentrismo di Derrida, tuttavia Habermas, con grande acume, la pone geneticamente come originaria nella critica hegeliana all'Illuminismo ed a Kant.
Anche Adorno non sfugge all'inflessibile accusa habermasiana. La sua critica performativa alla ragione, tuttavia finisce col distruggere anche sé stessa. Come si vede facilmente, Habermas ha con ciò esaminato le tre tendenze fondamentali della filosofia continentale del Novecento: quella conservatrice, quella rivoluzionaria e quella più schiettamente postmoderna. Tutte e tre conducono ad aporie e paradossi che non lasciana via d'uscita. La risposta di Habermas è già stata in qualche modo offerta: consiste in un rovesciamento di paradigma. La filosofia deve trasformarsi da filosofia del soggetto a filosofia dell'agire comunicativo, della ricerca dell'intesa intersoggettiva.
La riflessione a questo punto è però risucchiata da due avvenimenti apparentemente distanti ed invece fortemente intrecciati quali la caduta del muro di Berlino e lo sviluppo di una revisione del giudizio storico sul nazismo, interpretato (e giustificato) da Nolte come una reazione al male del comunismo. Habermas vede in questa operazione un tentativo di ripulire la coscienza dei tedeschi e ridare loro una identità patriottica che è fuori del tempo e delle necessità contemporanee. Nel concetto di nazione è presente un'equivoco di fondo che è la vocazione dello stato nazionale a ad affermarsi nel confronto tra le "potenze". E ciò è di ostacolo alla realtà necessaria di un nuovo universalismo. Questo, al di là del fatto che non si può cancellare la verità della storia e la mostruosità del crimine, è il vero problema che pongono i revisionisti storici.

Fatti e norme
Nel 1992, Habermas ritorna con ulteriore messa a punto sulle questioni dell'etica del discorso e del rapporto tra etica, morale e diritto. Il diritto può essere considerato in due modi diversi: i) come prescrizione cui occorre obbedire per evitare sanzioni.
ii) come norma legittima cui viene riconosciuta a chi si sottomette una validità, ed alla quale occorre obbedire anche senza il timore di sanzioni. Non per calcolo, ma per convinzione.
Egli nota, che sia Marx che Luhmann (tanto per fare due nomi di tradizioni molto diverse, che comunque risalgono ad Hobbes), hanno privilegiato una lettura sistemica del diritto quale principio di ordine e regolarità sociale. Rawls, dal canto suo, ha sviluppato il secondo concetto, quello del diritto partecipativo e condiviso.
Habermas critica entrambe le posizioni, ritendole insufficienti e parziali. La prima è improntata ad un realismo che finisce con lo svalutare il momento, che deve avere carattere permanente, della legittimità del diritto stesso, il quale non può che basarsi sul consenso costante.
La seconda si concentra eccessivamente su come dovrebbe essere la società, e trascura il momento della coazione necessaria. Habermas è chiaro: il diritto è anche un meccanismo di regolazione insostituibile di fronte alla complessità sociale. «Nelle società complesse - scrive - non sembra esserci nessun altro equivalente funzionale che possa sostituirlo. La filosofia affronta così un compito inutile quando cerca di dimostrare che organizzare giuridicamente la nostra convivenza ( e dunque formare in generale comunità giuriduche) non è solo un compito funzionalmente raccomandabile ma anche moralmente doveroso.» (16) Habermas non nega che la morale venga per così dire prima del diritto, e non afferma nemmeno che essa sia qualcosa di attinente la sola sfera privata. Tiene soltanto a precisare che l'etica del discorso e ragioni pragmatiche da un lato, e ragioni etiche dall'altro, costituiscono motivi ispiratori più che sufficienti. In tal modo, Habermas recupera appieno la distinzione tra etica e morale. Il principio di universalizzazione, infatti, consiste in un'imparziale considerazione degli interessi di tutti, risponde a principi di equità e non visioni morali.
L'etica del resto non si pone mai in contraddizione con ciò che è moralmente giusto, ma si differenzia in quanto peculiare abitudine di una comunità, anzi, è il bene di una comunità. Di fronte ad un pluralismo di comunità, le norme giuridiche in grado di soddisfare i partecipanti al dibattito non possono che presentarsi come un compromesso.

Degli ultimi approdi dell'itinerario di Habermas daremo conto in futuro.

1) http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010104f.htm
2) http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/021207a.htm
3) Stefano Petrucciani - Introduzione a Habermas - Laterza 2000
4) idem
5) Habermas - Teoria e prassi nella società tecnologica - Laterza 1971
6) idem
7) idem
8) idem
9) Stefano Petrucciani - Introduzione a Habermas - Laterza 2000
10) idem
11)
12)
13) Habermas - Etica del discorso - Laterza 1985
14) ricorrendo ad argomenti già presentati da Apel e Alexy, Habermas ritiene che il principio U sia "implicato" da quei presupposti che non possono essere negati dai partecipanti alla discussione senza che si incorra in contraddizioni performative
15) Habermas - Etica del discorso - Laterza 1985
16) Habermas - Fatti e norme - Laterza 1996
moses (testo curato da Daniele Lo Giudice e Silvana Poggi) - 25 agosto 2005

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