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IL VANGELO DI MARCO

 
     

INDICE

 

Il Cristianesimo non � fondato su un sistema di pensiero, un'ideologia o una leggenda.

Alla sua radice vi � una storia di un uomo vissuto in Palestina duemila anni fa e riconosciuto dai suoi discepoli come il Messia.

L'ambiente religioso ebraico nel quale Ges� visse attendeva la venuta dell'inviato di Dio, il Messia, il quale avrebbe realizzato le promesse di salvezza fatte da Dio al suo popolo. Con il popolo ebraico Dio aveva creato legami di amicizia e mostrato in pi� occasioni la propria volont�.

La novit� del Cristianesimo � quella di ritenere che, con la nascita di Ges� di Nazareth, Dio imprima una svolta alla storia degli uomini.

Per chi viveva in Palestina al tempo di Ges� e ha visto, ascoltato, seguito il Nazareno, la prima esperienza era quella di avere a che fare con un uomo simile a loro, un uomo reale e autentico.

I Vangeli sottolineano, infatti, unitamente alla straordinariet� della persona di Ges�, anche la sua umanit�, evidenziando che egli ha desideri, sentimenti e passioni tipicamente umani: per esempio la fame e la sete (Gv. 4, 7-8), si commuove nei confronti delle folle (Mc. 6,34, Mt. 15,32) o davanti a malattie e lutti (Mc. 1,41; Lc. 7,13), ha paura (Mc. 14,33), si meraviglia (Gv. 3,10), rimprovera (Mt. 23, 13-33), piange (Gv. 11,35).

 

   LA FORMAZIONE DEL NUOVO TESTAMENTO

  1. LE FONTI BIBLICHE

  2. I VANGELI APOCRIFI

  3. FONTI PAGANE E GIUDAICHE

  4. LA LINGUA

   INTRODUZIONE

  1. AUTORE, DATA E LUOGO DI COMPOSIZIONE

  2. STRUTTURA LETTERARIA E CONTENUTO

  3. TEOLOGIA DI MARCO

   I. LA PREPARAZIONE DEL MINISTERO DI GESU'

  A - TITOLO (1,1)

  B - PREDICAZIONE DI GIOVANNI (1, 2-8)

  C - IL BATTESIMO DI GESU' (1, 9-11)

  D - LA TENTAZIONE NEL DESERTO (1, 12-13)

   II. IL MINISTERO DI GESU' IN GALILEA

  GESU' E LE FOLLE (1,14-3,6 )

  LA CHIAMATA DEI PRIMI DISCEPOLI (1, 16-20)

  L'AUTORITA' DI GESU' (1, 21-34)

  CONTROVERSIE CON I FARISEI (2,1-3,5)

  SOMMARIO DEI MIRACOLI DI GESU' (3, 7-12)

  PREDICAZIONE IN PARABOLE (4, 1-34)

  I MIRACOLI (4, 35-5,43)

  LA SEZIONE DEI PANI (6,31-8,26)

   III. VIAGGI DI GESU' FUORI DELLA GALILEA

  LA DONNA SIROFENICIA (7, 24-30)

  GUARIGIONE DI UN SORDOMUTO (7, 31-37)

  MOLTIPLICAZIONE DEI PANI PER I 4.000 (8, 1-9)

  RIFIUTO DI UN SEGNO DAL CIELO (8, 10-13)

  LA CECITA' DEI DISCEPOLI (8, 14-21)

  IL CIECO DI BETSAIDA (8, 22-26)

  CONFESSIONE DI PIETRO (8, 27-30)

  PRIMO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (8, 31-33)

  SECONDO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (9, 30-10,32)

  TERZO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (10, 32-52)

   IV. IL MINISTERO DI GESU' A GERUSALEMME

  INGRESSO MESSIANICO A GERUSALEMME (11, 1-10)

  DISCORSO ESCATOLOGICO (13, 1-37)

   LA PASSIONE E LA RISURREZIONE DI GESU'

   CONCLUSIONE

 

Ges� � un uomo sensibile per le qualit� positive che esprime: affetto e amicizia per i suoi discepoli (Gv. 15,15), fiducia nei loro confronti (Mc. 3,14); e, nel contempo, � un uomo fermo e deciso, convinto di quanto fa e di quanto dice (Mt. 7, 28-29), pronto anche a soffrire sapendo di doverlo fare (Mc. 8, 31-33). Ma accanto a questi tratti della persona umana di Ges�, emerge nei Vangeli anche la sua divinit�. La persona di Ges�, nella sua interezza, sta all'origine della fede cristiana. Tutta la sua vita, i suoi discorsi e i suoi silenzi, i suoi sentimenti e le sue decisioni, i suoi gesti quotidiani e quelli miracolosi, la sua nascita e la sua morte e infine, soprattutto, la sua risurrezione, tutto questo � la radice del Cristianesimo. Proprio a partire dalla risurrezione di Cristo, infatti, gli apostoli comprenderanno in pieno che Ges� � il Figlio di Dio: questo � il nucleo centrale dell'annuncio cristiano. Ma con Ges� si � determinato negli uomini un cambiamento di aspettative riguardo alla modalit� con la quale Dio si sarebbe rivelato: chi si attendeva la rivelazione di Dio e la sua comunicazione con gli uomini esclusivamente in termini di potenza o tramite miracoli, vede invece un uomo che, pur facendo opere straordinarie, vuole assumere in maniera completa le caratteristiche della vita umana nella sua quotidianit�. Chi si aspettava di vedere un Dio, ha visto un uomo. Ges� � Figlio di Dio e mantiene la propria divinit�, ma nello stesso tempo sceglie di ridursi alla dimensione umana.

 " Ges� Cristo, pur essendo di natura divina,

non consider� un tesoro geloso

la sua uguaglianza con Dio;

ma spogli� se stesso,

assumendo la condizione di servo

e divenendo simile agli uomini. "

( Fil. 2, 5-7 )

 

LA FORMAZIONE DEL NUOVO TESTAMENTO

 

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1. LE FONTI BIBLICHE 

Ges�, come si sa, non ha lasciato nessuno scritto e nemmeno ha preso alcuna iniziativa per garantire una riproduzione letteraria dei suoi discorsi. Hanno scritto invece alcuni suoi seguaci, e nemmeno subito dopo i fatti, ma a distanza di qualche decennio. Subito dopo i fatti (cio� dopo la morte-risurrezione di Ges�) si � invece formato il Vangelo orale (dall'anno 30 al 70 circa); solo in seguito si formarono anche i Vangeli scritti (tra il 70 e il 100 circa). In pratica dalla morte di Ges� alla redazione definitiva dei vangeli passano una quarantina d'anni, ma non sono quarant'anni di vuoto: sono anni di intensa attivit� della comunit� cristiana, di predicazione, di celebrazioni liturgiche, di prime raccolte scritte dei "detti" principali di Ges�, delle parabole, dei miracoli. Da tutto questo materiale, gli evangelisti hanno poi attinto per comporre i Vangeli. Questa trasmissione orale e scritta, va sotto il nome di Tradizione.

Il periodo di composizione � compreso tra il 40-50 e il 70 d.C. per i Vangeli di Matteo, Marco e Luca, e tra il 90-100 d.C. per quello di Giovanni.

I primi tre Vangeli sono detti "Sinottici", da un termine greco (sjn = "insieme" + �psis = "vista", cio� "lettura unitaria") che indica la possibilit� di "leggerli insieme" tante sono le analogie e tanti sono i parallelismi.

Il Vangelo di Giovanni, scritto al di fuori della Palestina, si scosta invece dai primi tre, in quanto, pur narrando gli stessi episodi, li considera in modo diverso.

Gli atti degli Apostoli vennero scritti da Luca tra il 73 e l'80 secondo alcuni studiosi, tra il 90 e il 100 secondo altri.

Alla base dei Vangeli sta la predicazione degli Apostoli, come spiega la Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano "Dei Verbum" n. 19: "Gli Apostoli, dopo l'Ascensione del Signore, hanno trasmesso ai loro ascoltatori ci� che Egli aveva detto e fatto, con quella pi� completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo spirito di verit�, godevano. E gli autori sacri hanno scritto i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose fra le molte che venivano tramandate a voce o anche per iscritto, sintetizzandone alcune, spiegandone altre in rapporto alla situazione delle chiese, conservando, infine, il carattere di annuncio, sempre per� in modo tale da riferire su Ges� con sincerit� e verit�".

Dunque nei Vangeli troviamo sia quello che Ges� ha detto e fatto, sia quello che gli Apostoli alla luce della Sua risurrezione e della Pentecoste hanno trasmesso, sia, infine, il lavoro di redazione compiuto dagli evangelisti che, secondo la situazione delle varie comunit� cristiane, sceglievano all'interno dell'annuncio, gli elementi che ritenevano pi� utili alla diffusione della fede, senza per� alterare il messaggio di Cristo. Quindi i Vangeli:

- non sono una biografia o ricostruzione storica di Ges�, intesa in senso moderno, anche se essi contengono molti dati biografici storicamente inoppugnabili;

- non sono una sintesi logica e sistematica delle verit� e dei precetti insegnati da Ges� (com'�, per esempio, il Corano di Maometto nella religione musulmana);

- non sono quattro versioni radicalmente diverse dello stesso evento, ma nemmeno sono versioni del tutto simili e ripetitive al punto da essere intercambiabili o unificate in un testo unico;

- non sono una registrazione diretta e immediata dei fatti al momento in cui questi accadevano, anche se gli evangelisti sono pi� o meno testimoni diretti dei fatti o perch� apostoli (� il caso di Matteo e Giovanni), o perch� discepoli vicini agli apostoli (� il caso di Marco e Luca).

La prima preoccupazione dei Vangeli � quella di offrire una visione completa di Ges�: � la totalit� della figura di Cristo che viene comunicata e non tanto i singoli aspetti (Ges� uomo, Ges� profeta, Ges� Dio ...). Chi si accosta ai Vangeli deve tenere conto di questo obiettivo religioso per entrare in sintonia con i testi evangelici.

Un corretto accostamento ai Vangeli come fonti storiche non richiede, dunque, un uso riduttivo della ragione, cio� una pura dimostrazione di eventi storici, ma il carattere di presentazione dei Vangeli � rivolto alla proposta, all'appello e alla fede.

Questo non toglie ai Vangeli il loro valore storico: anche se sono resoconti scritti alla luce della fede, tuttavia sono fedeli ai dati storici e rispettosi dell'originario insegnamento di Cristo. Manca, tuttavia, nei Vangeli la preoccupazione di fissare tutto e subito per iscritto quanto ha fatto o detto Ges�: per questo risulta difficile risalire alle dirette parole di Ges� ("ipsissima verba Jesu").

Dopo la risurrezione gli apostoli hanno, quindi, interpretato gli eventi storici grazie al dono dello Spirito Santo e alla luce della loro fede, ma non li hanno inventati.

Gli evangelisti, in alcuni passaggi dei loro testi, sottolineano, infatti, che i loro racconti sono fondati su testimonianze personali (Gv. 19,35; 21,24) o fanno riferimento a testimonianze delle quali si � vagliata la fondatezza (Lc. 1, 1-4).

Matteo e Giovanni furono apostoli del Signore e diretti testimoni di quanto poi riferirono nei loro Vangeli.

Marco non fu apostolo, ma fu discepolo di Paolo prima e poi di Pietro e soprattutto dalla predicazione di quest'ultimo raccolse i dati storici per stendere il suo Vangelo.

Luca afferma in apertura del suo Vangelo di essersi premunito di cercare notizie fondate e di aver raccolto scritti e resoconti che altri avevano steso prima di lui.

Gli studiosi, partendo da questi dati storici, hanno individuato alcuni criteri che confermano l'affidabilit� storica dei fatti narrati nei Vangeli.

1) Criterio di attestazione multipla. Quando un fatto o un insegnamento viene riportato da fonti diverse, il dato evangelico pu� essere considerato come solidamente attestato e quindi degno di affidabilit� storica, perch� pi� testimonianze lo confermano. Applicando questo criterio risulta che il tema della misericordia di Ges� verso i peccatori � storicamente fondato perch� viene attestato da tutti gli evangelisti e in forme letterarie differenti tra loro (parabole, discorsi, racconti di incontri di Ges� con varie persone, polemiche con i farisei e i capi del popolo). Anche l'attivit� taumaturgica di Ges�, la sua predicazione in parabole, la sua presa di posizione nei confronti della religiosit� formale di alcuni del suo tempo, la sua morte in croce, la sua risurrezione sono riconoscibili come fatti storici accreditati.

2) Criterio della discontinuit�. Quando un dato contrasta con l'ambiente e la mentalit� giudaica del tempo in cui visse Ges�, tale dato � da ritenersi autentico. Per esempio, l'atteggiamento di Ges� nei confronti dei farisei e del sabato, che rappresenta un caso di rottura con il mondo rabbinico o l'uso da parte di Cristo del termine familiare "Abb�" per riferirsi a Dio.

3) Criterio della conformit�. Si pu� considerare autentico un dato evangelico se � conforme e coerente con tutto il messaggio di Ges� e l'annuncio del Regno di Dio.

4) Criterio di spiegazione necessaria. E' l'applicazione del principio di ragione sufficiente: ogni fatto deve poter essere adeguatamente spiegabile, talvolta una spiegazione diventa necessaria perch� � l'unica possibile, in quanto altre spiegazioni farebbero sorgere numerosi e pi� grandi problemi. Questo criterio praticamente dice: la spiegazione pi� semplice talvolta � quella necessaria anche se esce dagli schemi pi� comuni". Per esempio, che gli apostoli non abbiano trafugato il corpo di Ges� dalla tomba, va accreditato come veritiero. Diversamente come avrebbero potuto eludere la custodia dei soldati? Dove avrebbero trovato il coraggio, dal momento che i Vangeli li descrivano estremamente timorosi?

Ma i Vangeli che abbiamo noi sono quelli scritti dagli evangelisti?

Rispondiamo affermativamente. Matteo, Marco, Luca e Giovanni hanno scritto il Vangelo. Questa prima stesura, quale � uscita dalle loro mani, si chiama "autografo": altri poi hanno trascritto l'autografo degli evangelisti, e tali copie si chiamano "codici".

Nessun autografo antico, n� profano, n� sacro, � giunto fino a noi, ma ci sono giunte le loro copie: i codici, appunto. E' interessante un confronto tra i codici profani e quelli sacri.

a.     Codici profani

Quali codici abbiamo degli autori profani? Di Orazio, che � tra i pi� fortunati, abbiamo 250 codici, di Omero 110, di Virgilio circa 100, di Sofocle circa 100, di Eschilo 50, di Platone 11, di Euripide 2.

Quale distanza di tempo passa tra l'autografo degli autori profani e le prime copie rimaste? Tale distanza per Virgilio � di 400 anni, per Orazio 800, per Giulio Cesare 900, per Cornelio Nepote 1200, per Platone 1300, per Sofocle 1400, per Eschilo 1500, per Euripide 1600, per Omero circa 2000.

Riassumendo: come quantit� di codici si va da 1 a 250; come distanza di tempo tra autografo e codici si va dai 400 anni a 2000 anni circa. Eppure nessuno ragionevolmente dubita della loro autenticit�.

b.     Codici sacri del N.T.

Possediamo 4270 codici, dei quali 53 contengono tutto l'A.T.

Alcuni frammenti di papiri sono importantissimi: quello di Chester-Beattj del 300 d.C.; quello di Egerton del 130-150 d.C. scoperto nel 1934; quello di Rjland degli anni 120-130 d.C. scoperto nel 1920 e pubblicato nel 1935.

Gli ultimi due provano in modo sicuro che al principio del II secolo, gi� esisteva il Vangelo di Giovanni cos� come lo leggiamo noi. Inoltre da tutto questo immenso materiale balza fuori la perfetta concordanza, fra tante migliaia di codici, traduzioni e relative copie, distanti tra loro sia per tempo che per luogo.

I codici pi� antichi a noi arrivati contengono tutta la Bibbia in greco, e sono: il Codice Vaticano (IV sec.), il Sinaitico (IV sec.), L'Alessandrino (V sec.) e altri.

Conclusione

1.     Non vi � libro antico documentato come i Vangeli.

2.     Fra l'autografo dei Vangeli e le primissime copie, praticamente non vi fu distanza di tempo, come dimostrano i papiri di Egerton e del Rjland, bench� i primi codici completi giunti a noi distano da 250 a 300 anni dal tempo in cui furono scritti i Vangeli. Tuttavia � facile comprendere che gli autografi non sono periti immediatamente dopo che furono scritti, ma pi� tardi, perci� la distanza tra autografi e codici attuali si riduce assai, o scompare addirittura, mentre per gli autografi profani la distanza minima � di 400 anni.

3.     Noi siamo dunque certi, anche storicamente, che i vangeli che ora possediamo, erano il patrimonio della primitiva comunit� cristiana.

 

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2. I VANGELI APOCRIFI

Nell'ambito cristiano, attorno alla persona di Ges�, sono nati dei testi che la Chiesa non ha riconosciuto come autentici: sono i Vangeli Apocrifi. Essi nascono dal desiderio di presentare la figura di Ges� come colui che opera "cose meravigliose" a testimonianza del fatto che � Dio.

L'interesse per gli aspetti sorprendenti e prodigiosi della vita di Ges� � cos� marcato che i racconti divengono quasi un romanzo colorito, una bella fiaba, una serie di aneddoti dove il miracolo � sempre di scena.

I Vangeli apocrifi si soffermano volentieri a sottolineare le coincidenze di fatti particolari e seguono uno schema narrativo nel quale si alternano l'esposizione di notizie (poco attendibili dal punto di vista storico) e leggende. Questi testi nascono in ambiente giudaico, presso il gruppo degli ebioniti, dei nazirei dei nicolaiti oppure presso gruppi gnostici che si ispiravano alla filosofia di Plotino (205-270 d.C.) e interpretavano la predicazione di Ges� utilizzando quella filosofia.

 

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3. FONTI PAGANE E GIUDAICHE

Accanto alla testimonianza dei Vangeli, altre fonti ci parlano di Ges�: la fonte non cristiana pi� antica che attesta dell'esistenza e morte di Ges� � un passo delle "Antichit� giudaiche", opera del 93 d.C. circa. Il testo narra la storia del popolo ebreo e fu redatto da Giuseppe Flavio (37-105 d.C.), un giudeo che, dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C. venne fatto prigioniero e pass� al servizio della "Gens Flavia" da cui prese il secondo nome. Il brano nel quale parla di Cristo prende il nome di "Testimonium Flavianum".

Oltre ai documenti giudaici abbiamo i documenti di origine romana:

P. Cornelio Tacito (55-120 d.C.) negli Annali, riferendo dell'incendio che devast� Roma durante il regno di Nerone (64 d.C.), parla dei cristiani e delle accuse lanciate contro di loro di aver appiccato il fuoco al quartiere romano della Suburra. Descrive poi la crudelt� delle prime persecuzioni scatenate contro i cristiani.

Pochi anni prima, dal 111 al 113 d.C. un altro letterato romano, amico di Tacito, Plinio il Giovane, che esercita la funzione di governatore nella Bitinia (Asia Minore). scrivendo una lettera all'imperatore Traiano chiede precisazioni sul modo di comportarsi nei confronti dei cristiani durante i processi contro di loro.

Un altro storico romano che accenna al personaggio di Ges� � Svetonio. Scrivendo la biografia degli imperatori romani (nel 120 d.C.), quando parla dell'imperatore Claudio che regn� dal 41 al 54 d.C. riferisce dell'editto con il quale egli: "Espulse da Roma i giudei i quali, istigati da un certo Crestos, provocavano spesso tumulti.

Il nome "Crestos" � una deformazione del nome "Cristo".

La notizia dell'espulsione dei Giudei e dei Cristiani da Roma corrisponde a verit� ed � attestata anche dal Nuovo Testamento (Atti 18,2): infatti nel 49 d.C. Claudio ordin� tale allontanamento per ragione di ordine pubblico e per evitare disordini. La confusione tra giudei, cristiani e Cristo � comprensibile poich� i romani non avevano una chiara coscienza di quali fossero le differenze tra ebraismo e Cristianesimo: entrambe queste religioni venivano dalla Palestina ed entrambe avevano la Bibbia come testo sacro.

In conclusione, le testimonianze non cristiane che abbiamo di Ges� provengono dai pi� autorevoli rappresentanti della cultura romana della fine del I secolo e sono pi� che sufficienti per stabilire il fatto dell'esistenza storica di Ges�.

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4. LA LINGUA

Tre lingue servirono agli autori ispirati per scrivere i testi originali della S. Scrittura. L'ebraico, l'aramaico e il greco.

1.     L'ebraico � una lingua semitica (dal nome di Sem, figlio di No�). Era parlato dagli Israeliti fino a qualche secolo dopo l'esilio babilonese, poi fu usato solo nelle preghiere e nelle composizioni letterarie. Risuscitato ed adattato alle esigenze della civilt� moderna, � usato correttamente nello Stato d'Israele.

2.     L'aramaico (da Aram, la regione che poi si chiam� Siria) divenne la lingua comunemente parlata dai Giudei di Palestina al tempo di Ges�. Alcune parole "ebraiche" riportate dai vangeli sono in realt� "aramaiche". Messia, Pascha, Golgotha, Talit� cum, ecc...

3.     Il greco fu diffuso in Oriente dalle conquiste di Alessandro Magno (dal 333 al 323 a.C.) e divenne la lingua delle persone colte. La conquista romana non pot� sostituire in Oriente il latino al greco, anzi questa lingua greca divenne di uso frequente anche a Roma.

L'Antico Testamento fu scritto per la massima parte in ebraico. In aramaico sono scritte alcune parti di Esdra e Daniele. In greco furono scritti il II libro dei Maccabei e il libro della Sapienza.

Tutto l'A.T. fu tradotto in greco nei secoli III e II a. C. e tale versione, detta dei "Settanta", perch� tale sarebbe stato il numero dei traduttori, essa fu adottata dalla Chiesa fin dal tempo degli Apostoli ed � ancora in uso nelle Chiese orientali.

Il N.T. fu scritto interamente in greco. Sappiamo che la prima redazione del Vangelo di Matteo fu in ebraico (o aramaico), ma ci � arrivata solo la redazione in greco.

Alla fine del IV secolo, S. Girolamo tradusse di nuovo l'A.T. direttamente dall'ebraico; tradusse anche Tobia e Giuditta dai testi aramaici, e revision� altri libri sul greco. Questa nuova Bibbia latina rimase l'unica in uso nella Chiesa occidentale, e si chiam� "Volgata", cio� divulgata, diffusa, di uso comune.

Le prime versioni italiane della Bibbia si fecero sul testo latino. Le pi� moderne sono tradotte direttamente dai testi originali.

 

  INTRODUZIONE

 

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1. L'AUTORE, DATA E LUOGO DI COMPOSIZIONE 

La tradizione della Chiesa primitiva � unanime nell'attribuire il secondo vangelo a Marco, il discepolo di Pietro.

L'affermazione pi� antica � quella di Papia di Gerapoli il quale, scrivendo agli inizi del II secolo, cita e commemora una testimonianza ancor pi� remota. L'evangelista � solitamente identificato con il Giovanni Marco di Atti 12.25 e con il Marco di I Pietro 5,13. Il fatto che egli avesse un nome giudaico (Giovanni) e un nome latino ellenizzato (Marco) fa pensare che egli fosse un giudeo proveniente dal mondo di lingua greca; in effetti, egli faceva parte degli ellenisti, nella comunit� di Gerusalemme.

Secondo la tradizione, Marco scrisse il suo Vangelo dopo la morte di Pietro (64 d.C.). Marco 13 contiene una predizione della distruzione del tempio, ma mentre i suoi paralleli in Matteo e Luca furono scritti dopo l'evento (70 d.C.) e furono in una certa misura alterati per accordarsi con i fatti conosciuti, Marco 13 si presenta come una predizione fatta prima dell'evento. Di conseguenza il suo Vangelo � datato tra il 65-70 d.C.

La tradizione collega il Vangelo di Marco con Roma (fatta eccezione di Giovanni Crisostomo che assegna il Vangelo ad Alessandria). Da prove interne risulta evidente che Mc. fu scritto per i cristiani non palestinesi ma di origine pagana: c'�, infatti, una scarsa preoccupazione di mostrare il legame del Vangelo con l'Antico Testamento, per questo motivo si prende cura di spiegare usanze giudaiche (Mc. 7, 3-4; 14,12; 15,42), di dare dettagli geografici (Mc. 1, 5-9; 11,1), di sottolineare l'importanza del messaggio evangelico per i pagani (Mc. 7,27; 8, 1-9; 10,12, 11,17; 13,10) e di tradurre parole aramaiche (Mc. 3,17; 5,41.34; 10,46; 14,36; 15, 22.24). Inoltre i riferimenti alla persecuzione (Mc. 8, 34-38; 10, 38-39; 13, 9-13) sembrano suffragare la tradizione di una provenienza romana.

 

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2. STRUTTURA LETTERARIA E CONTENUTO

Il Vangelo di Marco � il meno sistematico. Dopo il preludio, costituito dalla predicazione di Giovanni Battista, dal battesimo di Ges� e dalle tentazioni nel deserto (Mc. 1, 1-13), ci sono alcune rare indicazioni che ci aiutano a discernere un periodo di ministero in Galilea (Mc. 1, 14 -7,23); poi i viaggi di Ges� con gli apostoli nella regione di Tiro e Sidone, nella Decapoli, nella regione di Cesarea di Filippo, con il ritorno in Galilea (Mc. 7,24 -9,50); infine un'ultima salita verso Gerusalemme per la passione e la risurrezione (Mc. 10,1 - 16,8).

Queste grandi linee di Mc. tracciano una evoluzione che merita di essere ritenuta storica e teologica: Ges� all'inizio � ricevuto dalla folla con simpatia, poi il suo messianismo umile e spirituale delude la loro attesa e l'entusiasmo si raffredda, allora Ges� si allontana dalla Galilea per dedicarsi alla formazione del piccolo gruppo dei discepoli fedeli, dai quali ottiene l'adesione incondizionata con la confessione di Cesarea; si tratta di una svolta decisiva, a partire dalla quale tutto si orienta verso Gerusalemme, dove si consuma il dramma della passione, coronato infine dalla risposta vittoriosa di Dio: la risurrezione.

E', quindi, il paradosso di Ges�, incompreso e respinto dagli uomini ma inviato ed esaltato da Dio, che interessa soprattutto il Vangelo di Marco, il quale si preoccupa meno di sviluppare l'insegnamento del Maestro e riferisce poco le sue parole. Il suo tema essenziale � la manifestazione del Messia crocifisso.

 

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3. TEOLOGIA DI MARCO

Bench� avvolto nell'alone di Pietro, il Vangelo di Marco, considerato dagli studiosi come il primo dei quattro a livello cronologico, non godette nei secoli cristiani di grande popolarit�, sovrastato come fu da quello di Matteo, del quale si credeva fosse una specie di riassunto. Solo in epoca pi� recente questo scritto � stato oggetto di grande interesse, perch� fu considerato come l'espressione significativa della prima predicazione della Chiesa, indirizzata a cristiani di origine pagana, a coloro, cio�, che erano gi� avviati a una "iniziazione" del mistero cristiano (i catecumeni), a coloro che avevano gi� sentito il primo annuncio e avevano gi� avuto il primo slancio della fede, ma che ora dovevano giungere a una pi� profonda comprensione del mistero di Ges�. Una conoscenza non tanto a livello dottrinale e teologico, quanto a livello di fede e di esistenza.

Un testo illuminante � Mc. 4,11 dove si parla di coloro che sono "dentro" (e comprendono) e di coloro che sono "fuori" (e non comprendono); l'iniziazione � un viaggio dall'esterno all'interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire a un'esperienza personale. Il mistero cristiano lo si coglie solo dall'interno.

La domanda a cui l'evangelista vuol rispondere nel suo Vangelo �: "Chi � Ges�?". Ma accanto a questa prima domanda e parallela ad essa ve n'� una seconda: "Chi � il discepolo?". Sono due facce del medesimo mistero: la "via" di Ges� � la stessa "via" del discepolo.

Per rispondere a queste due domande (Chi � Ges�? Chi � il discepolo?), c'� innanzitutto da precisare che, nel Vangelo di Marco, la rivelazione progressiva del mistero di Ges� e del discepolo non avviene solo attraverso discorsi progressivi, sempre pi� espliciti, ma attraverso una storia che, man mano che si vive, si chiarisce: il Vangelo � racconto, dramma, storia, non una dottrina che si apprende, o un catechismo che si impara a memoria. Se si vuol capire, se si vuol leggere dall'interno, bisogna essere coinvolto in quella storia, si deve vivere la sequela, Non c'� posto per l'osservatore neutrale.

Marco non si limita a rivelare poco a poco il mistero cristiano (chi � Ges�?), ma si preoccupa di condurre il lettore a scoprire le proprie paure, le proprie resistenze (chi � il discepolo?). Cos� il Vangelo si muove contemporaneamente su due linee: la rivelazione del mistero di Cristo e la manifestazione del cuore dell'uomo. E' il continuo scontro fra questi due aspetti che fa di Mc. un vangelo attuale, drammatico e inquietante. L'uomo vede i gesti di Ges�, sente le sue parole, ma resta incredulo. I motivi di questa resistenza vengono dal suo cuore "malato" (Mc. 7, 17-23), che Ges� � venuto a guarire.

Ges� non ha rivelato subito la sua Persona, ha voluto essere un "Messia nascosto". Infatti, a pi� riprese, nel ritratto che Mc. delinea di Ges�, si avverte un senso di penombra: di fronte ai demoni che lo riconoscono Figlio di Dio, di fronte ai miracolati che lo vorrebbero acclamare Messia e Salvatore, Ges� oppone quello che � stato definito "il segreto messianico". In realt�, egli vuole solo progressivamente svelare il mistero della sua Persona e in particolare "la via della croce" come l'unico cammino per raggiungere il suo pieno svelamento. E' sulla croce, infatti, che Ges� va riconosciuto come Messia e Salvatore.

La Crocifissione non � sconfitta, ma il trionfo di Cristo, ne � prova il fatto che Mc. fa terminare il suo Vangelo con la professione di fede di un pagano, il centurione, che riconosce in Ges� il Figlio di Dio, proprio al momento della sua morte. "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio". Il Vangelo di Marco si potrebbe chiudere cos�, difatti egli fa solo un breve cenno alla Risurrezione, parlando del sepolcro vuoto, e il racconto delle apparizioni (Mc. 16,9-20) non � suo: � chiamato, infatti, dagli studiosi "finale canonica di Marco", cio� fa parte delle Scritture ispirate, quindi ritenuta canonica (del Canone biblico), anche se non necessariamente redatta da Marco.

Per Mc. il momento del trionfo di Cristo � la Croce, e anche se scrive per i Romani, pagani (la Croce per loro era un scandalo), il discorso � diretto a noi, perch� spesso anche noi rifiutiamo la nostra croce ("chi � il discepolo?"), invece di imitare quella del Maestro ("chi � Ges�?"). Solo adesso possiamo rispondere alle due domande che Mc. si propone di dare una risposta nel suo Vangelo: Chi � Ges�? E' il Figlio di Dio che rivela tutto il suo amore per l'uomo, morendo in Croce. Chi � il discepolo? Colui che, come Cristo, accetta la propria croce , sull'esempio del Maestro, come mezzo di salvezza per se e per gli altri. Potremmo, perci�, leggere idealmente questo Vangelo come un itinerario che comprende varie tappe, in cui si mescolano oscurit� e luce, distribuite in due grandi momenti.

Il primo (capitoli 1-8), che ha la sua vera vetta nella scena di Cesarea di Filippo ove Pietro riconosce Ges� come "Cristo", parola greca che traduce quella ebraica di "Messia" (Mc.8, 27-29). Da quel vertice si deve procedere verso un'altra vetta pi� alta ed � nel secondo movimento del Vangelo (dal cap. 8 alla fine), dove si scopre il vero segreto di Ges� di Nazareth.

Attraverso una "via" spesso evocata (Mc. 8,27; 9, 33-34, 10,17.32.46.52), attraverso tre annunci di Ges� sul suo destino di morte e di gloria (Mc. 8,31, 9,31, 10, 32-34), attraverso la sequela sui passi di Cristo (Mc. 8,34; 10, 21.28.32.52), si giunge sul colle della Crocifissione ed � l� che nelle parole del centurione romano � svelato il mistero ultimo di Ges�: quell'uomo morto in croce � il Figlio di Dio (Mc. 15,39).

 

 

I. LA PREPARAZIONE DEL MINISTERO DI GESU' 

 

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A - TITOLO (1,1)

"Inizio del vangelo di Ges� Cristo, Figlio di Dio".

Marco � l'unico evangelista che ha intitolato "Vangelo" ("to euaggelion" = "buona notizia") il suo libro su Ges� Cristo. Solo pi� tardi questo termine � passato ad indicare anche l'opera degli altri autori che hanno descritto la vita di Ges�. Marco identifica la buona notizia con Cristo stesso: in 8,35 e 10,29 sacrificarsi o morire per il vangelo � farlo per Cristo.

In Mc. 13, 9-11 l'invito di Ges� ai discepoli a testimoniare per lui viene interpretato come un proclamare il vangelo a tutte le nazioni, con l'implicazione che nella stessa proclamazione Cristo � fatto presente.

Nell'intitolare il suo libro "il vangelo", Mc. intende affermare che esso non � primariamente un resoconto o una narrazione su Ges�, ma una proclamazione del Cristo risorto, nella quale egli si � reso nuovamente presente. Per questo la Chiesa non si limita a ripetere la predicazione di Ges�, ma fa di Lui (persona e storia) l'oggetto del proprio annuncio.

Ci� che segue del vangelo � la buona notizia, che rende nuovamente presente Ges�, Messia e Figlio di Dio, nei vari episodi concernenti il suo ministero terrestre fino alla sua risurrezione.

La prima parola scritta da Marco ("inizio") ci dice che il vangelo, la lieta notizia che � Ges� stesso, non � apparso come qualcosa di grandioso: ebbe, invece, un umile inizio e, quindi, uno sviluppo, che solo alla fine apparir� nella sua pienezza: il vangelo percorre la strada del seme che diventa albero.

La parola "inizio" � imposto dalla tecnica letteraria per cominciare una qualsiasi composizione, ma essa ricava da Gen, 1,1 una particolare solennit� e importanza. Anche Gv. 1,1 ("In principio era il Verbo") cita letteralmente la prima parola della Genesi, e Mt. 1,1 ricorre alla genealogia di Ges�: formula introduttiva della tradizione sacerdotale, per iniziare il suo Vangelo.

Quindi, gi� questa prima parola chiarisce il contenuto dello scritto di Marco: egli parla di un inizio nuovo, voluto da Dio con un intervento irripetibile, nel tempo finito s�, ma di importanza definitiva. Questo inizio nuovo diventa per il lettore che legge con gli occhi della fede, l'inizio nuovo della propria vita.

Possiamo tradurre in questo modo questo primo versetto: inizio della lieta notizia che consiste nel fatto che Ges�, che ha condotto una vita umile, che ha scelto il servizio e la croce, � il Messia, � il Figlio di Dio.

Marco pone, dunque, all'inizio della sua narrazione due professioni di fede, intorno alle quali si svilupper� tutta la meditazione successiva: Ges� � il Messia (tale titolo � spiegato nel suo giusto senso in Mc. 8,29), Ges� � il Figlio di Dio (per capire il significato occorre leggere Mc. 15,39).

Leggendo Mc. 8,29 (e il suo contesto) siamo invitati a passare dal Messia al Figlio dell'uomo: Ges� � Messia, ma non nella linea politica e nazionalistica, bens� della croce.

Leggendo Mc. 15,39 si comprende che Ges� � veramente Figlio di Dio per noi, un Dio che ama l'uomo e si rivela nell'amore (cos� lo coglie il centurione, esempio del catecumeno che � giunto a capire il mistero).

Il titolo "Figlio di Dio" ha chiaramente il senso teologico pregnante che gli attribuiva la comunit� post-pasquale del tempo di Marco. E' un titolo che lui usa con sobriet�, ma lo inserisce soprattutto in tre testi importanti: nel Battesimo (1,11), nella Trasfigurazione (9,7) e nella Passione, al momento della professione di fede del Centurione (15,39).

Ma quale significato preciso dobbiamo attribuire al titolo "Figlio di Dio?". E' proprio per rispondere a questa domanda che Marco racconta la vicenda di Ges�.

Chi � Ges�? Mc. risponde: "E' il Figlio di Dio", non nella linea della gloria e della potenza ma in quella della povert� e della sofferenza: Ges� rivela la sua figliolanza divina sulla Croce.

Difatti i tre testi citati (Battesimo, Trasfigurazione e Crocifissione), sono su questa linea.

Il Battesimo colloca la vocazione messianica di Ges� nella linea del Servo di Dio, di cui ha parlato Isaia: un progetto di salvezza che passa attraverso il servizio e la morte per gli altri.

La Trasfigurazione si colloca dopo l'annuncio della Passione ed ha lo scopo di rivelare in anticipo ai discepoli che la croce racchiude la risurrezione.

Infine � proprio di fronte a Ges� morente che il primo pagano si converte: il Centurione riconosce in Ges� il Figlio di Dio, non vedendo i prodigi, ma vedendolo morire.

 

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B - PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA (1, 2-8)

Come nella predicazione degli Apostoli (Atti 1,22; 10,37; 13,24) anche la proclamazione del Vangelo inizia con il ministero di Giovanni nel deserto.

Qui, per�, il ministero di Giovanni ha un posto nel vangelo solo in quanto � il preludio voluto da Dio al suo atto salvifico manifestato nelle venuta di Ges�, il Messia. La predicazione di Giovanni, infatti, riguarda uno pi� potente, "pi� forte" (1,7) che deve ancora venire.

Per costruire il quadro di Giovanni Battista, Marco fa riferimento sia al testi di Isaia (40,3) e Malachia (3,1), sia all'austero Elia che indossava un "mantello di pelo" (vestito abituale di un profeta) e una "cintura di cuoio" (2 Re 1,8).

Il ricorso all'A.T. - allo scopo di collocare la storia di Ges� nel piano della salvezza - fu un costante problema della comunit� primitiva. Il riferimento alle Scritture fu una delle chiavi pi� importanti di cui la comunit� si � servita per illuminare l'intelligenza al mistero di Ges�.

Le citazioni dell'A.T. (Mc. le colloca proprio in apertura (v.2) del suo Vangelo) per capire il presente, rientra nella prassi giudaica dell'epoca: per� il modo cristiano di leggere l'A.T. si differenzia da quello giudaico.

La caratteristica di fondo della lettura cristiana sta nel fatto che l'attualizzazione delle Scritture e il compimento delle profezie sono concentrate su un personaggio e su un avvenimento decisivo: la Risurrezione. Ges� non � soltanto il maestro che istruisce i discepoli nelle Scritture; Egli � l'oggetto di cui le Scritture parlano. L'A.T. � letto a partire dalla risurrezione, cio� da un fatto, da un avvenimento realmente accaduto, e non semplicemente da una vaga speranza, promessa e mai realizzata.

Possiamo, quindi, affermare che Giovanni Battista sia nella sua vita austera che nella sua predicazione si colloca nella grande linea del profetismo veterotestamentario, ma � anche il precursore del Nuovo Testamento. Nella sua vita, Giovanni non coltiva n� campi n� orti, ma ricava il suo nutrimento dalla steppa, proprio come Israele, che nei suoi 40 anni di peregrinazione viveva soltanto di quel che gli offriva il deserto. Giovanni, dunque, personifica il vero Israele, che vive nel "deserto" e attende colui che dovr� venire, cio� il pi� forte. Tra Giovanni, il precursore, e Colui che dovr� venire esiste, dunque, una distanza infinita: "Io non sono degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali".

Giovanni predica un Battesimo di penitenza. L'abluzione rituale (cio� l'immergere nell'acqua) era una cerimonia diffusa in molte altre religioni e anche nella religione ebraica dell'epoca, ma Giovanni trasforma questo atto spesso esteriore in una scelta religiosa: per ricevere il Battesimo � necessaria la conversione del cuore per il perdono dei peccati.

Marco, poi, ha elaborato in senso cristiano la predicazione del Battista: afferma, infatti, che il dono battesimale portato da Cristo sar� lo Spirito Santo: opera gi� qui la teologia cristiana del battesimo.

Giovanni si presenta come la voce di colui che chiama nel deserto: chiama il popolo d'Israele a riscoprire i propri inizi, a ridiventare quel piccolo gruppo che tra mille pericoli, ma con il risolutore intervento di Dio, era riuscito a sfuggire al faraone d'Egitto e che nel deserto aveva dovuto imparare chi era, e che cosa voleva veramente Dio.

Giovanni ricordava quella fase della storia di Israele, quando il popolo nel deserto, avendo ricevuto come indicazione i soli Comandamenti, aveva seguito senza una meta precisa il suo Dio.

Ma appena Israele era giunto nella terra della promessa e dell'abbondanza concessa da Iahw�, ben presto aveva dimenticato la lezione del deserto. Aveva dimenticato che Dio non � presente staticamente in un qualche luogo, ma vuol essere oggetto di una continua ricerca e di una costante imitazione.

Israele non voleva pi� cercare con fatica le tracce di Dio, gli costruisce, invece, un tempio a Gerusalemme. Israele aveva dimenticato che Dio non aveva chiesto tanti sacrifici e atti di culto, bens� la legge semplice e chiara dei dieci Comandamenti.

Dio aveva comandato che Israele fosse un popolo di fratelli che si amano l'un l'altro, un popolo nel quale anche il pi� debole poteva vivere nella sicurezza. Ma Israele aveva dimenticato tutto ci�, e offriva costosi sacrifici, celebrava grandi feste.

Giovanni, per�, non aveva dimenticato, richiamava il popolo agli inizi, a riscoprire le proprie origini, parlava di "conversione".

La sua predicazione non era solo diretta agli abitanti di Gerusalemme dell'anno 27, ma vale anche per noi. Anche noi abbiamo chiuso Dio nella Chiesa, lo serviamo con i sacrifici e il culto e poi lo dimentichiamo quando cominciano i reali problemi della vita quotidiana. Salvaguardiamo solo i nostri interessi, cerchiamo stabilit� e sicurezza nelle cose che passano, escogitiamo i compromessi pi� astuti e pi� comodi, ma non ci accorgiamo che, cos� facendo, diventiamo sempre pi� opachi, miopi e schiavi.

Dio vuole che gli uomini vivano l'uno con l'altro, e non l'uno contro l'altro. Solo l'amore per i fratelli, per il prossimo, spezza le chiusure del nostro egoismo che ci soffoca. Solo partendo da questa realt� potremo riacquistare la libert� per nuovi "inizi", solo amando i fratelli potremo cercare Dio e onorarlo veramente.

Ges� prendeva a cuore la situazione e i diritti degli altri, ma soprattutto di coloro che i "devoti" declassano e discriminano: i pubblicani e i peccatori.

 

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C - IL BATTESIMO DI GESU' (1, 9-11)

Marco con il racconto del Battesimo, vuole presentarci Ges� nel suo duplice aspetto di Figlio dell'Uomo (in cammino verso Gerusalemme: meta suprema del suo sacrificio) e di Figlio di Dio (che muore in croce per amore dell'uomo).

Dei quattro evangelisti, solo Marco parla in modo esplicito del Battesimo, e descrivendo questa teofania avvenuta al Giordano come una visione sperimentata soltanto da Ges�, egli mantiene segreta la vera identit� del Messia.

Matteo accenna solo all'intenzione di Ges� di essere battezzato (Mt. 3,13) e ne parla poi come un fatto compiuto (Mt. 3,16; Lc. 2,21); Giovanni lo omette completamente (Gv. 1, 32-34).

La breve annotazione geografica: "Venne da Nazareth di Galilea", � sufficiente a evocare la piena umanit� del Messia e le sue umili origini. Nessuno si aspettava un Messia proveniente da un oscuro paese della Galilea e nessuno si aspettava un Messia che si sottoponesse a un battesimo di penitenza partecipando al movimento di conversione del suo popolo: Cristo "in fila" con i peccatori. Egli si presenta liberamente da Giovanni, non spinto dalla colpa, perch� non ha peccati da confessare, ma si fa solidale con il popolo peccatore. Ges� conferma cos� l'azione di Giovanni e con il suo battesimo entra nella storia della salvezza del popolo di Dio. Egli si mette accanto ai peccatori e si sottomette insieme con essi al giudizio di Dio che viene proclamato dal Precursore, l'ultimo dei profeti.

Eppure � in questo figlio di Galilea che si fa presente l'azione salvifica di Dio, definitiva e a vantaggio di tutti. Lo dimostrano "l'aprirsi dei cieli", "la venuta dello Spirito", "la voce divina".

Dal punto di vista letterario, l'intera scena del Battesimo viene narrata nel linguaggio simbolico dell'Antico Testamento.

- Il termine "cielo" sta a indicare, per i rabbini, il mondo di Dio. I "cieli aperti" (allusione a Isaia 63, 11-19) significano non solo che Dio � unito a Ges� in modo definitivo e irreversibile, ma anche che l'uomo grazie a Ges� Cristo pu� comunicare con Dio. Quei "cieli" che furono chiusi dopo il peccato d'Adamo ora sono riaperti grazie alla venuta di Ges�, cos� Dio esce dalla sua trascendenza e annuncia di nuovo agli uomini pace e salvezza.

Tale discesa della divinit� ora si compie e diviene visibile attraverso la discesa dello "Spirito dal cielo". Questo � il segno per eccellenza del promesso messia, il quale deve possedere la pienezza dello Spirito di Dio (Isaia 42,1; 61,17). Lo Spirito � presentato sotto forma di "colomba", simbolo di Israele (Osea 11,11; Salmo 68,13; 74,19; 56,1). Ges� designato, in questo modo, diventa il rappresentante del nuovo popolo di Dio secondo lo Spirito.

La "voce" divina � un'allusione a Isaia 42,1 dove si parla del Servo amato da Dio eppure perseguitato, fedele al Signore e solidale con il suo popolo al punto da caricarsi sulle proprie spalle i peccati di tutti. E' in questo senso che Ges� � proclamato dalla "voce" del Padre: "Figlio prediletto". La filiazione divina non lo sottrae alla sofferenza, al contrario lo impegna in una missione salvifica per gli altri, da compiere nella solidariet� e nella persecuzione.

Il Battesimo di Ges�, dunque, guada in avanti, verso la Croce: in Mc. 10, 39-40 la morte in Croce (e la sorte dei martiri che seguiranno) � chiamata, appunto, battesimo.

Dall'insieme del racconto del Battesimo di Ges�, deve scaturire la risposta all'interrogativo che Marco si � posto all'inizio del suo Vangelo: "Chi � Ges�?".

Una prima osservazione: il battesimo di Ges� al Giordano rappresenta il culmine del racconto evangelico su Giovanni Battista, e insieme l'inizio del ministero messianico di Ges�. La successione degli episodi vuole mettere in luce che tutta l'opera del Battista e l'intera rivelazione vetero-testamentaria sono orientate a Ges� di Nazareth: in Lui culmina l'opera salvifica annunciata dai profeti. L'austera figura del Battista si eleva sublime su tutti i profeti che l'hanno preceduto, ma ora scompare davanti al "pi� forte", del quale "non � degno neppure di sciogliere i legacci del calzari" (v.7).

La differenza sostanziale, qualificante, tra Giovanni Battista e Ges� di Nazareth, secondo l'evangelista Marco, � che il primo battezzava soltanto con acqua, mentre il secondo "battezzer� con lo Spirito Santo" (v.8). Il battesimo che Giovanni d� a Ges� nel Giordano non �, quindi, come per il passato, un "battesimo di conversione per il perdono dei peccati", ma l'inizio di una nuova economia di grazia, resa possibile dall'azione dello Spirito.

Nel racconto parallelo di Matteo, il battesimo dato dal Battista a Ges� costituisce un grosso problema, appunto perch� il battesimo di Giovanni era sempre stato visto in funzione di una "conversione" per la "remissione dei peccati", per cui � lo stesso Giovanni Battista che vorrebbe impedirglielo: "Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?" (Mt. 3,14).

In Marco tale problema non figura esplicitamente, appunto perch� l'intero racconto si colloca nella prospettiva della radicale novit� che il Battista andava annunciando e che Ges�, col suo Battesimo al Giordano, inaugura in modo definitivo: "Io vi ho battezzati con acqua ("battesimo di conversione, per il perdono dei peccati"), ma "Egli vi battezzer� con lo Spirito Santo". Con Ges� il battesimo da "rito" penitenziale, diventa "segno" sacramentale, momento di salvezza, caratterizzato dalla discesa dello Spirito su di Lui, e quindi anche segno profetico e inizio di ci� che sar� la nuova comunit� dei credenti: rigenerati nell'acqua e nello Spirito Santo diventeranno figli di Dio; non come il Figlio, naturalmente, in quanto egli solo possiede la figliolanza eterna.

Matteo e Luca parlano di un battesimo "in spirito e fuoco", alludendo alla discesa dello Spirito Santo, sotto forma di "lingue di fuoco" nella Pentecoste; Marco, invece, si limita a parlare del battesimo "con lo Spirito Santo", con un duplice riferimento: sia al battesimo di Ges� (durante il quale lo Spirito Santo si manifesta sotto forma di colomba), sia allo stesso battesimo cristiano, (che non sar� pi� un "battesimo di conversione per il perdono dei peccati" come quello del Battista, ma un rito che, celebrato nella fede, dispone di una vita divina, capace di trasformare il cuore stesso dell'uomo). Ci� che caratterizza il battesimo, � quindi lo Spirito Santo.

Ma pi� che il ruolo messianico di Ges�, l'episodio del Battesimo, intende affermare e proclamare il carattere trascendente della sua persona e soprattutto la sua origine divina: "E si sent� una voce dal cielo, tu sei il Figlio mio prediletto". La voce che risuona dal cielo �, quindi, la voce stessa di Dio, il quale, rivolgendosi senza intermediari a Colui che il suo Spirito ha riempito si s�, lo proclama suo figlio prediletto, oggetto delle sue compiacenze.

Adesso � pi� facile rispondere alla domanda che ci siamo fatti all'inizio di questo brano e del Vangelo stesso di Marco: "Chi � Ges�?". E' il Figlio prediletto di Dio.

Ges� di Nazareth si trova con Dio in un rapporto unico e immediato: Egli � insieme il "servo sofferente" (Isaia 42,1) e il "figlio diletto".

Dio conferma che l'uomo Ges� � il messia pieno di Spirito Santo.

 

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D - LA TENTAZIONE NEL DESERTO (1, 12-13)

Questo racconto � pi� breve rispetto a Mt. 4, 1-11 e Lc. 4, 1-13 perch� Mc. omette il particolare delle tre tentazioni. Alcuni commentatori pensano che Mt. e Lc. abbiano ampliato il racconto di Marco. Altri, invece, sono propensi a credere che il brano di Marco sia un riassunto dei due sinottici. Attualmente non ci sono prove certe che accreditano o l'una o l'altra ipotesi, da pi� parti si ritiene che l'ampliamento del racconto di Mt. e Lc. faccia riferimento a qualche altra fonte; certo �, che si dovrebbe resistere alla tentazione di interpretare il racconto di Marco, che � completo in s�, sfruttando i racconti pi� ricchi di Mt. e Lc.

"Lo Spirito sospinge Ges� nel deserto".

Bench� Mt. e Lc. stabiliscono un'analogia tra le tentazioni di Ges� e la prova dei 40 anni di Israele nel deserto (Dt. 8,2), questo parallelismo � quasi assente in Marco. Anzi, la menzione del deserto riflette la credenza che questo luogo fosse la dimora degli spiriti maligni, cos� anche il periodo dei 40 giorni, in Marco, denota semplicemente un tempo pi� o meno lungo, senza alcuna allusione a Dt. 8,2.

"Tentato da satana".

Diversamente da Mt. e Lc., Marco non indica n� la natura della tentazione di Ges�, n� la durata cronologica : essa non avviene al termine dei 40 giorni, ma sembra che accompagni Ges� lungo tutti i 40 giorni, cio� tutta la vita � stato un confronto tra il "forte" (Satana) e il "pi� forte" (Ges�).

A Marco, quindi, interessa che Ges� fu tentato, non gli interessa in che cosa di preciso sia consistita la tentazione, n� si ferma a considerare il suo svolgimento e il suo esito. Il racconto resta incompiuto, quasi un interrogativo. La risposta verr� dall'intero Vangelo: � la storia successiva che preciser� la natura della tentazione, il suo svolgimento e il suo esito.

Bench� Mc. non indichi l'esito della lotta di Ges�, esso � chiaramente riferito in 3, 27 (satana "il forte" verr� legato dal "pi� forte"), e le implicazioni della sconfitta di satana saranno evidenti negli esorcismi di Ges�.

Questa prospettiva � molto diversa rispetto a Mt. e Lc., Marco non intende offrire alla Chiesa una catechesi sulla tentazione (avvertendo la comunit� sulle possibili tentazioni nelle quali pu� imbattersi), ritiene pi� importante sottolineare che Ges� "subito" dopo il Battesimo, fu tentato da satana. Il legame tra battesimo e tentazione � stretto e intenzionale: lo Spirito dato al battesimo non separa Ges� dalla storia e dalle sue contraddizioni, al contrario, lo colloca all'interno della lotta che si svolge nella storia.

Come risposta al Battesimo, dove Ges� � stato appena proclamato dal Padre suo "Figlio prediletto" ma solidale con i peccatori, ora va nel deserto, dove sperimenta "subito" la condizione dell'uomo peccatore soggetto alla tentazione e alla prova. Qui, anche Lui � soggetto a un serio confronto tra la tentazione di satana e la protezione di Dio ("gli angeli" sono qui descritti come un esercito che combatte al fianco di Dio contro gli spiriti maligni simboleggiati dalle "bestie selvagge": Sal. 22, 13-22; Isaia 13, 21-22; Ez. 34,5.8.25).

In questo brano, quindi, viene presentato lo stesso mistero di Cristo, manifestato nel Battesimo: nella manifestazione al Giordano, alla domanda: "Chi � Ges�?", abbiamo risposto: "Il Figlio di Dio", solidale con i peccatori. Nel racconto della Tentazione alla stessa domanda: "Chi � Ges�" rispondiamo: "E' il Figlio di Dio" soggetto alla tentazione, come tutti i peccatori.

Questo mistero, cos� grande coinvolge anche l'esistenza del battezzato: la vita nella quale il battesimo introduce, � sotto il segno della vittoria e della pace (le "bestie selvagge" possono anche simboleggiare l'inizio dell'era messianica come un paradiso riconquistato: Is. 11, 6-9; 65,25; Os. 2,18).

Lo Spirito, dato al battesimo, non separa Ges� dalla storia e dalle sue ambiguit�: al contrario, colloca Ges� all'interno della lotta che in essa si svolge.

Come risposta al battesimo, Ges� si dirige nel deserto, cio� in un'esistenza nella quale egli sperimenta il confronto con satana e, contemporaneamente, l'aiuto di Dio (gli angeli): si vive nella lotta e insieme nella pace.

In definitiva il mistero di Cristo (Figlio di Dio eppure tentato) � lo stesso mistero del battezzato: la vita nella quale il battesimo introduce � fatta di lotta, eppure � sotto il segno della vittoria e della pace.

 

 

II. IL MINISTERO DI GESU' IN GALILEA  

 

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GESU' E LE FOLLE (1,14-3,6)

Avendo mostrato che Ges� � il Messia e il Figlio di Dio, Mc. inizia ora il racconto di come egli abbia svelato gradatamente il mistero della sua identit� durante il suo ministero.

L'annuncio di Ges�: "Il tempo � compiuto e il regno di Dio � vicino", si colloca in primo luogo sullo sfondo delle attese del popolo circa il Messia, ma contemporaneamente se ne stacca. A differenza della speranza ebraica che parlava di futuro, Ges� dice che l'ora messianica � arrivata, � qui nelle sue parole e nella sua azione: l'annuncio di Ges� ha un tono di gioia e insieme di urgenza.

In secondo luogo la proclamazione di Ges� � universale: Egli rivolge l'appello a tutti coloro che, comunemente, erano ritenuti fuori della gioia messianica, esclusi: i poveri, i peccatori, i piccoli, gli stranieri.

E' sorprendente il fatto che Ges� non si presenta come un semplice profeta che annuncia l'avvento di Dio, ma lo annuncia presente nella sua persona, nella sua parola e nella sua attivit�.

Se questo regno � presente nell'"oggi" della Chiesa e del mondo, allora dobbiamo "convertirci". La conversione nasce, anzitutto, come risposta a un evento, questa lieta notizia ("credete al vangelo") dovrebbe allargarci il cuore: in Ges� ci � apparso, in tutta la sua profondit�, il sorprendente amore di Dio verso l'uomo, ogni uomo. Ecco l'evento che devo accettare, del quale devo fidarmi e sul quale devo modellarmi: ecco la conversione. Non � un parziale cambiamento, ma un vero e proprio passaggio dall'egoismo all'amore, dalla difesa dei miei privilegi alla solidariet� pi� radicale.

La conversione non � riferita a un'azione particolare dell'uomo ma a tutto l'uomo. A un corridore che corre nella direzione sbagliata non giova a nulla fare il massimo sforzo, fintanto che qualcuno non lo induca a fare una inversione (una conversione) per andare nella direzione opposta.

Il vangelo di Mc. � contrassegnato da diversi sommari (1,39; 3, 7-12; 6,6b), molti dei quali sembrano essere unit� pre-marciane.

II primo sommario che incontriamo � questo della predicazione di Ges� (1,14-15), "Dopo che Giovanni fu arrestato": una prefigurazione del destino di Ges� (9,13; 10, 33; 14,10.11.44).

"Ges� si rec� nella Galilea": il ministero galilaico � centrale in Marco, probabilmente l'evangelista introdusse sistematicamente questa ubicazione pi� per motivi teologici che a scopo di informazione: non si tratta semplicemente della scena del ministero terrestre di Ges�, essa � anche il luogo d'incontro con il Cristo risorto (16,7). Forse Mc. intende esortare la Chiesa di Gerusalemme a rivolgere il suo sguardo su questa "Galilea", riconoscendo nel luogo del ministero terrestre di Ges� il teatro della sua imminente parus�a.

"Predicando il vangelo di Dio": � possibile che Ges� stesso abbia chiamato il suo messaggio "la buona notizia", alludendo a Is. 61, 1-2; 40,9; 52,7. Comunque, le espressioni "predicando il vangelo" e "la buona notizia di Dio" sono termini cristiani riscontrabili in Paolo (Gal. 2,2; Col. 1,23; 1 Ts. 2,9). E' perci� pi� probabile che questa annotazione sia un'aggiunta editoriale ai fini di dare un sommario programmatico della predicazione di Ges� in termini specificatamente cristiani (1,1).

"Il tempo � compiuto e il regno di Dio � vicino; convertitevi": Mc. invertendo l'ordine di Mt. 4, 17 ("Convertitevi, perch� il regno di Dio � vicino") e iniziando con "il tempo stabilito (dell'atto salvifico di Dio) � compiuto", pone l'accento sulla natura escatologica della presenza di Ges� in Galilea (Ez. 7,12; Dan. 12,4.9; Sf. 1,12).

 

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LA CHIAMATA DEI PRIMI DISCEPOLI (1, 16-20)

La chiamata dei primi quattro discepoli vuole essere un esempio concreto di conversione. Non � la conversione proposta agli specialisti del Regno di Dio, ma � semplicemente la conversione necessaria per essere cristiani.

L'appello di Cristo esige un distacco, non si tratta, per�, di lasciare le reti o un lavoro, ma pi� a fondo si tratta di lasciare le ricchezze (Mc. 10,21), di abbandonare la strada del dominio e del potere, di smantellare quell'idea di Dio che noi stessi abbiamo costruito a difesa dei nostri privilegi (Mc. 8,34).

Seguire significa percorrere la strada del Maestro, compiere i suoi gesti di preferenza (preferire coloro che gli uomini emarginano e che invece Dio ama; preferirli non perch� solo loro contano, ma perch� li abbiamo emarginati).

Ges� non incontra l'uomo in una sfera particolarmente religiosa o comunque privilegiata, ma sulla riva del lago, l� dove l'uomo veramente vive, nella vita di tutti i giorni.

Dunque � il termine "seguire" che caratterizza il discepolo, non il termine "imparare". E' significativo il fatto che non � in primo piano la dottrina, ma una persona e un progetto di esistenza, per questo l'essere discepolo � una condizione permanente.

Il tema della sequela ci porta al centro della fede cristiana e questo ci invita a una verifica.

C'� chi crede in Dio e in una dottrina religiosa, ma non si tratta spesso, nella sostanza, del Dio che si � rivelato in Ges� Cristo; pu� persino trattarsi di un Dio magico, costruito per risolvere i nostri conflitti e le nostre ansie; comunque � una fede che non si misura, concretamente, sul progetto messianico del vangelo; anche i farisei erano credenti in Dio, ma hanno ugualmente rifiutato la strada di Ges�, che � stata quelle della croce: pensavano che Dio avrebbe percorso altre strade.

C'� che vive nella logica della Croce, ma non scorge in essa il volto di Dio: non � ancora l'uomo della sequela. C'� infine chi vive la logica della Croce e in essa scopre il volto di Dio: costui � l'uomo della sequela.

"Passando poi lungo...": la Chiesa primitiva sapeva che alcuni dei suoi discepoli erano stati con lui fin dal tempo di Giovanni (At. 1,21-25; 10,37), ecco perch� Mc. pone questo episodio all'inizio del ministero galilaico.

Bench� le parole diano l'impressione di un incontro quasi casuale, i verbi "paragein" e parerchesthai" (passare vicino), quando sono attribuiti a Ges� nei vangeli, si trovano in racconti epifanici (Mt. 9,27; 20,30; Lc. 18,37; Mc. 2,14; 6,48)

Nell'A.T. quando si dice che Dio (1 Re 19,11; 2 Sam. 23,4), la sua bont� (Ez. 33,19), oppure la sua gloria (Ez. 33,22) "passano vicino", si vuole intendere che essi "si manifestano". Qui l'espressione preannuncia una manifestazione del potere messianico di Ges� per crearsi dei discepoli.

"Venite dietro a me": Ges� fa una richiesta imperativa ai suoi discepoli e impone una nuova direzione alle loro esistenze. Non meno importante � l'effetto immediato dei suoi appelli.

"Vide Giacomo e Giovanni": Mc. combina assieme gli eventi in modo che i tre discepoli privilegiati siano i primi ad essere chiamati (v. il contrasto tra Lc. 5, 1-11; Gv. 1,37.42.43)

"Lasciato il loro padre Zebedeo": Mc. d� l'impressione che Pietro e Andrea abbiano risposto alla chiamata di Ges� abbandonando la loro professione, mentre Giacomo e Giovanni risposero troncando ogni legame di famiglia. Pu� darsi che ci� sia esagerato, ma l'intenzione primaria di Marco � di mostrare che il discepolato comporta la rinuncia ai possedimenti (cfr. 10,21) e ai legami di famiglia (10,29).

 

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L'AUTORITA' DI GESU' (1, 21-34)

Il Vangelo di Mc. non � raggruppato per temi come quello di Matteo: sembra porre gli episodi uno dopo l'altro, senza ordine.

Ma il disordine � in realt� solo apparente: un'attenta analisi fa scoprire in diverse pagine una logica molto abile. Noi ci accontentiamo per ora di un solo rilievo: questa prima serie di episodi (che va fino a 3,6), ha come motivo ricorrente una connotazione geografica: Cafarnao e il suo lago.

Anzi la prima parte (1, 21-34) costituisce una "giornata" di Ges�, chiamata appunto "la giornata di Cafarnao" ed � una giornata di sabato, come si dice all'inizio e come si lascia capire alla fine (le folle aspettano il tramonto del solo, cio� la fine del riposo sabbatico, per portare gli ammalati a Ges�).

Dobbiamo subito notare che il vero e unico scopo di Mc. � quello di illustrare la figura del Cristo. Egli ci presenta in questa pagina la missione di Ges� nel suo duplice aspetto di parola e azione, insegnamenti e opere di salvezza.. A Mc. non interessa dirci ora che cosa ha insegnato: gli interessa sottolineare: l'autorit� di Ges� nell'insegnare e nel guarire.

"Si mise ad insegnare": qui Mc. associa l'attivit� di insegnare di Ges� con la sua auto-rivelazione, il suo insegnamento � connesso con il suo potere taumaturgico (1,27), e questo suscita grande meraviglia (1,22.27; 6,2; 7,37; 10,26; 11,18).

Coloro a cui Ges� insegna sono spesso specificati (la folla: 1,22; 2,13; 4,2; 6,34; 10,1; 11,18; 14,49; e i discepoli: 8,31; 9,31); ma ci� che egli insegna � precisato soltanto nella seconda parte del vangelo: la sua passione e risurrezione (8,31; 9,31), il matrimonio indissolubile (10,1), figlio di David (12,35), la via di Dio (12,14), cautela nei confronti degli scribi e dei farisei (12,38).

Nella prima met� del Vangelo di Mc. Ges� insegna soltanto in modo velato "il mistero del regno di Dio" (4,10) attraverso parabole (4, 10-12,33.34). La prossima sezione pertanto sar� una rivelazione velata della messianicit� di Ges�.

"Come uno che ha autorit� e non come gli Scribi": nella tradizione primitiva la parola "autorit�" (dall'ebraico "resut") era riferita all'autorit� che aveva un rabbino di imporre una decisione con forza vincolante (cfr. Mc. 11,28.29).

La parola "scriba" corrisponde all'ebraico "soper", un insegnante di rango inferiore a quello di un rabbino. Ges� quindi sarebbe stato posto a confronto con tali insegnanti di grado inferiore che non possedevano questa "resut" (autorit�).

In Mc. tuttavia "autorit�" (dal greco "exous�a") implica l'autorit� messianica che Ges� esercita di fatto (2,10; 3,15; 6,7; 11, 28-33). Il suo insegnamento costituiva un esercizio di quella stessa autorit� con la quale egli distrusse il potere di satana.

E' significativo, quindi, il fatto che il primo miracolo di Ges� � un esorcismo, un segno evidente che se il regno di Dio � vicino, anzi � presente in Ges�, allora il potere del demonio � ridotto all'impotenza.

I miracoli di Ges� sono il segno che il futuro regno di Dio ha gi� fatto irruzione in questo mondo e ha iniziato a trasformarlo: "Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora � giunto a voi il regno di Dio" (Lc. 11,20). Proprio perch� sono legati intimamente al regno di Dio che Ges� annuncia, e che rende presente nella sua persona, i miracoli presuppongono l'apertura della fede all'iniziativa salvifica di Dio che opera in Cristo. Per questo nei racconti di miracolo trova posto cos� spesso il motivo della fede (Mc. 2,5; 5, 34-36; 7,29; 9,23).

Nel vangelo di Mc. le narrazioni di miracolo hanno particolare spazio nella prima parte (1,14-8,30) che culmina con il riconoscimento di Ges� come Messia.

Nella seconda parte (8,31-15,39), destinata alla rivelazione del Figlio di Dio crocifisso-risorto, l'attivit� taumaturgica � solo un'eccezione (vedi 9,14-29; 10, 46-52).

I miracoli, quindi, hanno un valore di rivelazione, sono al servizio della fede e quindi non danno una certezza diversa dalla fede e non rivelano un Dio diverso. Sono a servizio di Ges�, di un Dio che si rivela sulla Croce: quindi non eliminano la Croce, ma rivelano che in essa � presente la vittoria di Dio.

Due particolari funzioni dei miracoli nel racconto di Mc. meritano di essere sottolineate:

1. La prima � che essi vanno letti alla luce del culmine del vangelo, il mistero pasquale di Ges�. Da una parte, nella storia umile di Ges�, i miracoli sono rivelazioni anticipatrici della sua potenza di Figlio di Dio, risorto. Dall'altra il silenzio che egli impone ai demoni (3, 11-12) e ai risanati (1,44; 5,43; 7,36; 8,26) serve a far risaltare che solo nella croce e risurrezione si avr� la piena rivelazione della sua identit� di Figlio.

2. La seconda funzione � l'apertura simbolica. Senza negare la concretezza delle guarigioni, infatti, Mc. le intende come "opere di potenza" che lasciano intravedere possibilit� pi� profonde: cos� la guarigione della suocera di Pietro (1, 29-31) apre alla prospettiva della risurrezione escatologica anticipata nella vita nuova battesimale; la guarigione di un sordomuto (7, 31-37) e dei ciechi (8, 22-26, 10, 46-52) simboleggia l'apertura della fede, le moltiplicazioni dei pani (6, 33-44; 8, 1-10) sono proiettate verso il dono del pane eucaristico.

Le opere potenti di Ges� si aprono cos� a significare le azioni salvifiche che il Risorto realizzer� nel tempo della Chiesa.

 

A. GUARIGIONE DI UN INDEMONIATO (1, 23-28)

"Un uomo posseduto da uno spirito immondo": nell'antichit� era diffusa l'opinione che i demoni fossero all'origine di qualsiasi malattia, specie quelle mentali le cui manifestazioni inducevano a pensare che l'ammalato non fosse padrone di s�. Molti dei miracoli di Ges� sono riferiti in termini di esorcismo.

"Il quale esclam�": una caratteristica comune nelle narrazioni di miracoli � di descrivere la gravit� della malattia del sofferente; ci� � qui indicato dalle urla spavalde dell'indemoniato e dai dettagli in 1,26.

"Che abbiamo a che fare noi con te?": Ges� � riconosciuto effettivamente come il Messia, unto con lo Spirito di Dio e rivestito di potere sopra gli spiriti maligni.

"Io so chi tu sei": conoscere il nome del proprio avversario significa avere un potere magico sopra di lui, il demonio chiama Ges� per nome due volte: "Ges� di Nazaret", "il Santo di Dio", cio�, un profeta carismatico come Eliseo (2 Re 4,9). Qui come altrove in Mc. (1,34; 3,11-12; 5,7) la vera identit� di Ges� � un segreto per le folle ma � attestata dai demoni.

"Gli intim�": il verbo "epitiman" tecnicamente significa anche "esorcizzare".

 

B. GUARIGIONE DELLA SUOCERA DI SIMONE (1, 29-31)

Il racconto della guarigione della suocera di Pietro � molto vivo: sembra di udire la voce dei testimoni oculari. Ma se vediamo queste guarigioni di Ges� con gli occhi dei primi cristiani, non dobbiamo vedervi dei semplici prodigi, ma cogliervi delle "parole" che annunciano il Regno e dei messaggi di vita.

"La fece alzare": Mc. usa il verbo "egeiro" che viene spesso usato per indicare la risurrezione di Ges� (Mc. 14,28; 16,6; 1Cor. 15,4; At. 3,15; 13,37). E' possibile che la Chiesa primitiva abbia visto il miracolo come una prefigurazione della risurrezione escatologica operata nel genere umano attraverso la morte e la risurrezione di Cristo.

"Ella li serviva": il dettaglio denota la pienezza della sua guarigione e indica il servizio che ci si attende da coloro che sono salvati da Cristo (10, 43-45).

 

C. MOLTE GUARIGIONI E PARTENZA DA CAFARNAO (1, 32-39)

Il primo di questi due racconti (32-34) chiude il ministero di Ges� del sabato a Cafarnao e mostra:

1.     che i suoi miracoli non erano ristretti a pochi, e

2.     che essi erano una manifestazione della sua messianicit�, anche se soltanto i demoni erano in grado di penetrare il suo segreto.

"Si mise a pregare": la partenza di Ges� fu occasionata dalle false speranze messianiche suscitate dai suoi miracoli. Le altre occasioni nelle quali Ges� prega (6,46; 14, 32-42) sono tempi di sofferenza connessi con la vera natura della sua messianicit�.

"Tutti ti cercano": In Mc. il verbo "zet�in" � sempre usato in contesti che fanno pensare a un modo sbagliato di cercare (3,32; 16,6). Simone vorrebbe far capire che Ges� dovrebbe rimanere a Cafarnao e sfruttare la popolarit� suscitata dai suoi miracoli. Ma Ges� rifiuta di limitare il suo ministero a un solo luogo o di incoraggiare le speranze messianiche delle folle.

 

D. GUARIGIONE DI UN LEBBROSO (1, 40-45)

Per capire questo miracolo � indispensabile ricostruire il suo retroterra veterotestamentario, presente in Lev. 13, 45-46.

Il lebbroso � un impuro, colpito da Dio, a causa della sua impurit�. Egli � un intoccabile e deve vivere al bando della societ�. Su questo sfondo il racconto evangelico acquista un significato preciso: Ges� tocca un intoccabile e questo miracolo illustra il potere di Ges� di salvare persino coloro che in forza della legge sono esclusi da Israele. Il Regno di Dio non tiene conto delle barriere del puro e dell'impuro.

 

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CONTROVERSIE CON I FARISEI (2,1-3,5)

Marco dopo la guarigione del lebbroso (1,40-45), raggruppa una prima serie di controversie (il perdono dei peccati concesso al paralitico; la polemica sulla purit� legale: "non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori"; il tema del digiuno, pratica non rispettata da Cristo; la polemica sul sabato). Pi� tardi riferir� una seconda serie di controversie ambientate a Gerusalemme (11,27-12,34).

Questa sezione serve a mostrare la crescente opposizione a Ges� che porter� poi al complotto dei farisei in 3,6.

Questa pericope potrebbe riferirsi a un singolo evento del ministero di Ges�, oppure, oppure essere la fusione del racconto di un miracolo (2, 3-5.11-12) con un detto di Ges� (6-10), in forza dell'associazione tra il perdono dei peccati e la fede.

La difficolt� maggiore � contenuta in 2,10 dove c'� uno spostamento di persone alle quali � rivolta la parola e viene in tal modo rotta l'unit� della pericope. Sorprende, inoltre, data la maniera marciana di presentare il segreto messianico, che Ges� abbia svelato se stesso come il Figlio dell'uomo con potere di perdonare i peccati proprio all'inizio del suo ministero e che, ancor pi� sorprendente, l'abbia fatto a degli scribi ostili (cfr. 8, 11-13). E' possibile, quindi, che 2,10 non sia un detto di Ges� ma un commento parenetico della Chiesa indirizzato ai lettori cristiani del vangelo, intendendo con ci� spiegare il significato della guarigione.

In questo caso la pericope formerebbe una perfetta unit� letteraria nella quale Ges� stabilisce l'efficacia della sua parola di perdono non mediante un'asserzione verbale ma per mezzo di un miracolo il cui significato � accessibile unicamente a coloro che hanno fede.

 

A. GUARIGIONE DI UN PARALITICO (2, 1-12)

"Vedendo la loro fede": la fede � il pre-requisito necessario per un miracolo (5,34; 5,56; 7,29; 9,23, 10,52) ed � una richiesta essenziale nella predicazione di Ges� (1,15); non poteva, prima della risurrezione, aver significato un atto di fede in Cristo visto come una persona divina. Gli evangelisti, scrivendo in quanto credenti cristiani, tendono a colorare di significati una fede specificatamente cristiana.

"Egli bestemmia": una prefigurazione della condanna presente in 14, 60-64.

"Affinch� voi sappiate": questo v. � un commento redazionale cristiano al miracolo di Ges�, il "voi" non pu� essere riferito agli scribi. La parola qui � rivolta ai lettori cristiani ai quali viene raccontato il miracolo.

"Io ti dico alzati": la guarigione avvalora la sua asserzione di poter perdonare i peccati e simboleggia la salute spirituale del peccatore che ha ottenuto il perdono.

"Restarono stupiti": la gente, stupita, non riesce a vedere il miracolo come una testimonianza del potere di Ges� di perdonare i peccati (cfr. Mt. 9,8); un altro motivo per pensare che 2,10 non rappresenti un detto pronunciato da Ges� in questa occasione.

 

B. LA VOCAZIONE DI MATTEO (2, 13-17)

Questa pericope collega tra loro una narrazione su Ges� (2, 13-14) e un detto (15-17), in entrambi i quali viene descritto l'atteggiamento di Ges� nei confronti dei peccatori.

"Trovandosi a cena in casa di lui": qui viene sottolineato il fatto che Ges� si associava ai gabellieri e ai peccatori fino al punto da sedersi alla loro stessa tavola.

"I malati hanno bisogno del medico": l'idea base del racconto � in questa asserzione proverbiale di Ges� e che Mc. interpreta non tanto come un nuovo principio di comportamento morale quanto come una manifestazione del potere messianico di Ges� di perdonare i peccati. Egli invita i peccatori al banchetto messianico senza lasciarsi contaminare dalla loro presenza..

"Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori": un'interpretazione cristiana del proverbio di Ges� di 2,17a. Non � che i giusti secondo la legge mosaica non fossero inclusi nell'invito di Ges�, ma in effetti quei giudei che accettarono il Cristo, erano, nell'insieme, non tra gli scribi e i farisei, ma tra coloro che erano considerati da loro dei peccatori.

 

C. IL DIGIUNO (2, 18-22)

Dopo la controversia sul potere di perdonare i peccati e sulla purit� legale, la terza polemica con i Farisei riguarda il digiuno. Con le immagini delle nozze, dei tessuti diversi, degli otri e dei vini, Ges� illustra in modo vivo la novit� della sua proposta spirituale, vincolata alla gioia e all'impegno interiore.

"Possono forse digiunare gli invitati a nozze": questa risposta di Ges� all'accusa di 2,18 prende la forma di un detto parabolico basato su pericopi veterotestamentarie quali Os. 2, 16-20; Is. 54, 5-6; 62,45; Ger. 2,2; Ez. 16, nelle quali il rapporto con Dio e il popolo dell'Alleanza � descritto come un matrimonio.

"Mentre lo sposo � con loro?": ci� potrebbe semplicemente significare "mentre si sta consumando il pranzo nuziale". Ma Ges� pu� aver inteso con ci� un riferimento allegorico a se stesso come il Messia-Servo. In entrambi i casi la risposta di Ges� significa che con lui sono iniziate le nozze eterne, e quindi non c'� alcun motivo per i suoi discepoli di digiunare e piangere.

"Verranno giorni in cui sar� tolto lo sposo": dopo la morte di Ges�, nel tempo della Chiesa, c'� l'osservanza del digiuno cristiano che non cancella, per�, la gioia e la libert� dello spirito.

"Nessuno cuce...": questi due detti parabolici sottolineano ora l'incompatibilit� della nuova economia con la vecchia economia mosaica; i discepoli di Ges� non possono pi� adottare il modello di vita del Battista senza compromettere la loro nuova visione delle cose. Il vestito pu� essere un simbolo dell'universo che Ges� non si limita semplicemente a rattoppare ma che crea di nuovo (cfr. Eb. 1, 10-12; At. 10,11ss.; 11,5ss.). Il vino potrebbe essere il simbolo di una nuova �ra (Gen. 9,20; 49, 11-12; Num. 13, 23-24); Ges� indica se stesso come colui che dispensa il vino nuovo al banchetto messianico.

 

D. LA RACCOLTA DELLE SPIGHE DI SABATO (2, 23-28)

La quarta controversia di Ges� con i Farisei ha per oggetto il sabato, il cui riposo era rigorosamente prescritto nel giudaismo.

"Non avete mai letto quel che fece Davide?": Ges� sottolinea che l'esistenza umana � pi� importante della norma e porta l'esempio biblico di Davide: secondo il racconto di 1 Sam. 21, 2-7, egli viol� una norma sacra per sopravvivere alla fame cibandosi dei pani rituali, proibiti ai semplici fedeli. Davide cos� � scusato dalla legge come lo sarebbe un qualsiasi altro uomo, per le circostanze della sua fame estrema; perfino l'A.T. ammetteva eccezioni alle sue stesse leggi (Lv. 24,9).

"Il sabato � fatto per l'uomo ...": questa prima conclusione, assente in Mt. e Lc. potrebbe essere attribuita pi� all'evangelista, che rende l'argomentazione di Cristo pi� convincente per uditori non giudaici, che a Ges� stesso.

"Il Figlio dell'uomo � padrone del sabato": questa seconda conclusione dell'episodio non � conforme al ragionamento presente in 2, 23-27. Qui Ges� giustifica la violazione del sabato in forza della sua autorit� in quanto Figlio dell'uomo, prescindendo completamente da qualsiasi scusante.

Probabilmente Mc. 2, 23-28 � una seconda redazione della disputa sabbatica cos� come si trova in Mt. e Lc. pi� che esserne la fonte. Mentre, infatti, Mt. 12, 1-8 � una unit� logica che riconosce la forza vincolante della legge ma argomenta, sulla base di un'analogia con Davide, che a maggior ragione Ges� in quanto Figlio dell'uomo pu� presumere di esentare se stesso e i suoi discepoli dalla legge. Mc. 2, 23-28, al contrario, sminuisce la forza vincolante della legge e invoca il principio pi� generale (non giudaico) che l'uomo � in definitiva la misura della forza vincolante della legge positiva di Dio. Questo spiegherebbe perch� Mc. 2,27 ("Il sabato � stato fatto per l'uomo...") � assente nel parallelo di Mt. e Lc.; non � che essi l'abbiano omesso indipendentemente l'uno dall'altro, ma � che Mc. lo ha aggiunto alla tradizione comune tenendo conto di una Chiesa di convertiti dal paganesimo.

Similmente la menzione di Ab�atar in 2,26 non c'� in Mt. e Lc. non perch� essi, avendo visto la discrepanza con 1 Sam. 21, 1-2 dove si dice che il sacerdote era Achimelek, l'hanno omesso, ma � che Mc. ha aggiunto questo dettaglio senza prendersi la briga di verificare la sua difettosa memoria del racconto riferito nell'A.T. Malgrado ci�, siccome Mt. 12,8 esisteva in effetti nella tradizione comune, Mc. lo conserv� e lo aggiunse senza un nesso reale al v. 27 da lui inserito mediante la congiunzione "perci�".

 

E. GUARIGIONE DI UN UOMO DALLA MANO INARIDITA (3, 1-5)

Siamo ancora a Cafarnao, cittadina della costa settentrionale del lago di Tiberiade. Nella sinagoga Ges� compie una guarigione proprio in giorno di sabato, quasi a sigillare la precedente polemica. La tesi � quella dei profeti: la vita, l'amore, la giustizia sono superiori al culto, alla norma, all'osservanza fini a se stessi.

Le stesse differenze tra Mc. 2, 23-28 e Mt. 12, 1-8 si riscontrano in quest'altra disputa sabbatica.

"E' permesso": secondo Mt. 12,11 Ges� risponde ai farisei citando la prassi giudaica e usando un argomento "a fortiori" (a maggior ragione): se una pecora cade in un pozzo in giorno di sabato, ogni giudeo osservante la salverebbe; "ora, un uomo quanto vale pi� d'una pecora!". Secondo Mc. Ges� invoca un principio pi� universale: "E' permesso fare del bene o del male in giorno di sabato? Salvare la vita o lasciar morire?". Questa risposta � meno attinente di quella contenuta in Mt. perch� l'uomo dalla mano arida non costituiva un caso di vita o di morte. Le parole di Ges� riducono al silenzio i suoi avversari pi� per la loro ironia che per la loro forza di persuasione.

"Essi tacevano": un commento di Mc. come in 9,34. Le critiche antilegaliste di Mc. continuano in questo versetto 5 che va anch'esso attribuito all'evangelista.

"Volgendo lo sguardo su di loro": una formula che si riscontra soltanto in Mc. (3,34; 5,32; 9,8; 10,23; 11,11) e una sola volta in Lc. 6,10.

"Con sdegno": Mc. � l'unico evangelista che parli dello sdegno di Ges� (1,41); la sua menzione qui accentua il tono antifarisaico della pericope.

"Rattristato per la durezza del loro cuore": un tema tipicamente marciano (6,52; 8,17).

 

F. IL COMPLOTTO DEI FARISEI (3,6)

Questo versetto segna il punto culminante della prima sezione di Marco. Ironicamente i farisei si sono accordati con i rinnegati seguaci di Erode Antipa, ma qui Mc. sta conducendo una polemica antigiudaica e desidera affermare che i giudei, qualunque fosse la loro fazione, cospirarono per uccidere Ges�.

I conflitti precedenti sono ordinati secondo una struttura letteraria che non sembra casuale. Passando dall'uno all'altro si assiste a una opposizione crescente (dapprima una reazione interiore, poi una reazione che si fa pi� esplicita, infine la decisione di uccidere Ges�).

Cos� la serie delle controversie termina (come sempre) con il ricordo della croce. I versetti centrali a cui tutto converge sembrano essere 2, 18-22. Due temi si affacciano immediatamente: quello dello sposo e il tema della novit�.

E' arrivato l'atteso, ecco l'affermazione centrale che d� unit� a tutte le controversie e a tutte le affermazioni di Ges�: perdona i peccati, guarisce, toglie le barriere che dividono gli uomini (la purit� legale), perch� � arrivato il tempo della salvezza. Facendo questo Ges� si dichiara Messia, ma in contraddizione con la concezione farisaica. Non � tutto: oltre al tema della gioia messianica, c'� una chiara allusione alla morte di Ges� e al rifiuto di Israele (lo sposo sar� tolto). E insieme una allusione alla sorte dei discepoli: essi ripeteranno la vicenda del maestro. I motivi centrali di Mc. sono qui tutti presenti.

In stretta connessione col tema dello sposo, sta quello del vecchio e del nuovo. Gli uomini fanno resistenza alla novit�. Ges� individua una prima fondamentale resistenza all'accoglienza del suo messaggio: si pu� rifiutare la conversione evangelica in nome della tradizione: ci� significa attaccamento al proprio schema e rifiuto a rinnovarsi.

I farisei pensavano che "convertirsi a Ges�" significasse introdurre qualche semplice ritocco nel loro sistema di vita: come se la novit� di Ges� fosse una "pezza nuova" da mettere su un "vestito vecchio"; come se fosse possibile mettere la novit� di Cristo nelle "vecchie botti".

E' per questo che il miracolo della conversione, nonostante l'incontro con la parola di Dio, non avviene in noi: non offriamo nessuna sincera disponibilit� al cambiamento, alla insicurezza, alla fede e all'azione irrompente di Dio. Teniamo il vangelo alla periferia del villaggio, illudendoci di essere seguaci di Ges� solo perch� abbiamo costruito qualche suo monumento-ricordo al centro della piazza.

La novit� che Mc. sottolinea � il segno della presenza di Dio in Ges�, ma � anche la ragione della croce, della persecuzione, del rifiuto. Ges� � rifiutato perch� porta il nuovo: il perdono dei peccati, il crollo delle divisioni (sta a tavola con tutti), la libert� del credente di fronte al digiuno e al sabato. Sono tre novit� che gli uomini rifiutano e condannano il profeta che le proclama.

Di fronte alla durezza del cuore dei farisei, Ges� prova collera e compassione (3,5). La sua compassione che non viene mai meno di fronte alle sue creature, incapaci di aprirsi alle sue sollecitazioni. L'ultima parola � sempre la fedelt� di Dio.

 

G. GESU' E I SUOI INTIMI (3,7-6,6a)

La sezione precedente (le controversie con i farisei 2,1-3,5) ci ha mostrato la crescente opposizione a Ges� fino al complotto dei farisei in 3,6.

Questa sezione costituisce un passaggio dal ministero di Ges� dalle folle (1,14-3,6) a quello tra i suoi discepoli pi� vicini (3,7-6,6a) e infine alla formazione e alla missione dei dodici (6,6b-8,33).

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SOMMARIO DEI MIRACOLI DI GESU' (3, 7-12)

Marco 3, 7-12 � un sommario redazionale composto dall'evangelista: lo stile e il vocabolario sono suoi. Introducendo nel racconto questa breve descrizione dell'attivit� di Ges�, Mc. vuole indicarci che inizia una nuova sezione.

Il tema fondamentale � sempre lo stesso, ma pi� approfondito e specificato: Ges� continua a manifestarsi mediante le parole e le opere, e la sua rivelazione suscita comportamenti differenti. C'� la reazione della folla, la reazione dei discepoli e dei dodici, la reazione dei parenti e degli scribi.

La decisione pro o contro Ges� si gioca nel cuore di ciascuno, l� dove il mistero del bene e del male, della verit� e della menzogna si scontrano.

"Ges� con i suoi discepoli si ritir�": Mc. vede con simpatia la folla, ma afferma anche che Ges� ne prende le distanze. Qui viene affermata la distinzione tra la folla e i discepoli.

"Una grande moltitudine dalla Galilea": i nomi di luogo in questo versetto sono come un catalogo di tutte le regioni della Palestina abitate dai giudei. Il menzionarle tutte attorno a Ges� � il preludio alla sua creazione di un nuovo Israele nell'elezione dei dodici.

"Idumea": al tempo di Ges� designava il sud della Palestina. L'origine del termine � legata a Edom, la popolazione araba che abitava la regione a sud-est della Palestina. Al tempo di Ges� l'Idumea era sotto l'amministrazione diretta del procuratore romano.

"Tiro e Sidone": citt� costiere fenicie, situate al di fuori del territorio giudaico, servono a mostrare l'interesse di Ges� per il mondo non giudaico.

"Una barca": questo dettaglio ha addentellati con una serie di eventi attorno al lago di Galilea (4, 1-41; 5, 1-21; 6, 32-56).

"Per toccarlo": ci� prefigura i due miracoli nei quali Ges� guarisce attraverso un contatto (5, 22-43).

"Tu sei il Figlio di Dio": � significativo che a riconoscere in Ges�, il Figlio di Dio siano "gli spiriti immondi", cio� il potere diabolico. Ma Ges� fedele a quel "segreto" che Mc. sottolinea nel suo ritratto, impedisce che questa sua realt� sia svelata.

 

ELEZIONE DEI DODICI (3, 13-19)

Dalla folla ai discepoli, dai discepoli ai dodici. Il numero dodici non � casuale, � in riferimento alle dodici trib� d'Israele, c con questo Ges� rivela la sua intenzione di dar vita a un nuovo popolo di Dio, alla comunit� escatologica attesa dai profeti.

Il tema dei dodici assume nella tradizione evangelica un profondo significato: � il germe del nuovo popolo di Dio, la chiesa in miniatura.

"Chiam� a s� quelli che egli volle": Mc. pone l'accento sull'autorit� del gesto di Ges�.

"Ed essi andarono da lui": il loro avvicinarsi � una risposta alla chiamata di Ges� perch� si associno a lui.

"Ne costitu� dodici": Ges� esprime simbolicamente la volont� di fondare le 12 trib� dell'Israele escatologico.

"Che stessero con lui": quest'espressione si avvicina molto alla definizione marciana del discepolo cristiano (2,19; 3,7; 4,36; 5,18.40; 8,10; 9,8; 11,11; 14,17.67; 15,41). La sua rilevanza teologica � anche evidente dal fatto che viene usata frequentemente durante la comunione dell'ultima cena (14,14.17.18.20.33), comunione che viene distrutta da Giuda "accompagnato da una grande turba" e da Pietro "con le guardie" quando neg� di essere stato "con Ges� il Nazareno".

"Per mandarli a predicare e perch� avessero il potere di cacciare i demoni": soltanto Mc. menziona in questo contesto che Ges� avrebbe conferito ai dodici i suoi stessi poteri messianici. Gli altri sinottici menzionano pi� logicamente questi poteri in connessione con la missione dei dodici, forse qui Mc. aggiunge queste frasi come un'anticipazione dell'invio missionario in 6,7 dove troverebbero la loro esatta collocazione.

"Diede a Simone il nome di Pietro": tutte le liste pongono Pietro al primo posto (Mt. 10,2; Lc. 6,14; At. 1,3), soltanto Mc. indica che il nome fu cambiato in questa occasione.

 

GESU' SI RITIRA DELLE FOLLE (3,20-5,43)

Questa sezione racconta una serie di eventi nei quali Ges� tenta, non sempre con successo, di allontanarsi dalle folle. In questi episodi appaiono ulteriori accuse contro Ges�.

 

I PARENTI DI GESU' (3, 20-35)

Perch� i parenti di Ges� lo giudicano fuori di s�? Essi non capiscono la sua spossante attivit�, la sua predicazione a tutti, la sua incondizionata disponibilit�. Agli uomini manca qualsiasi comprensione delle assolute esigenze di Dio. Dio dovrebbe rimanere chiuso nel nostro concetto di ordine e di buon senso, dovrebbe risparmiarsi nella fatica e nell'amore, dovrebbe donarsi con cautela. Tutto ci� che ci supera, ci sorprende e ci disturba, lo definiamo privo di senso.

L'episodio si apre con l'annotazione di una reazione contro Ges� da parte di coloro che lo conoscevano bene.

"I suoi": lett. "quelli attorno a lui", il che potrebbe significare "amici, parenti, servit�".

"E' fuori di s�": ci� equivale a un'accusa di possesso demoniaco (Gv. 7,20; 8,48).

"Egli � posseduto": Mc. riferisce qui l'accusa fatta da capi religiosi.

"Beelzebul": nella letteratura pre-cristiana non esiste alcuna testimonianza che lo indichi come il nome di un demonio. Forse si tratta del nome del dio filisteo di Ekron.

"Come pu� satana scacciare satana?": Ges� dimostra che i suoi esorcismi segnalano la distruzione del potere di satana, ma � necessario ammettere l'esistenza di un altro potere diverso da quello di satana per spiegare le opere di Ges� dato che satana non � cos� pazzo da distruggere il suo stesso regno.

"Se prima non incatena l'uomo forte": cio� Beelzebul. Ges� � il "pi� forte" (1,7) che � entrato nella casa di satana e pu� ora procedere a saccheggiare le sue masserizie.

"Tutti i peccati saranno perdonati agli uomini": Ges� asserisce l'universalit� del perdono di Dio per tutti i peccati.

"Chi avr� bestemmiato contro lo Spirito Santo": l'attivit� di Dio pu� essere attestata unicamente attraverso le opere dello Spirito. Se queste non vengono riconosciute come tali, allora restano precluse a Dio tutte le vie per arrivare all'uomo. Chi non accetta l'opera dello Spirito si mette nell'impossibilit� di riconoscere la parola e l'azione di Dio. Pu� ricevere il perdono solo chi confessa d'avere qualcosa che deve essere perdonato.

"Chiunque fa la volont� di Dio � fratello, sorella e madre": Ges� non rinnega la sua parentela naturale ma la subordina a un legame pi� alto di fratellanza. Il regno di Dio richiede un impegno personale del discepolo il quale, a volte, deve trascendere tutti i legami naturali di famiglia o di gruppo etnico.

 

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PREDICAZIONE IN PARABOLE (4, 1-34)

E' il primo discorso che troviamo nel vangelo di Marco, ed � uno dei pochi. L'ossatura del discorso � costituita da tre parabole: quella del seminatore, la parabola del seme che cresce da solo e quella del granello di senape.

Le altre parti del discorso (l'interrogativo sul perch� delle parabole, la spiegazione della parabola del seminatore, i detti sulla lampada e sulla misura) sono piuttosto una "omelia" sulle parabole stesse, una specie di commento fatto dalla comunit� desiderosa di attualizzare il discorso di Ges�. Ma attualizzare non significa inventare: per costruire il proprio commento la comunit� si � servita di parole del Signore tramandate dalla Tradizione.

Prima di leggere singolarmente le tre parabole del seme, � bene individuare il motivo centrale del brano, l'interrogativo che ha spinto Mc. (o la sua tradizione) a costruire il discorso cos� come lo leggiamo noi.

Prendiamo l'avvio da una constatazione generale: le parabole evangeliche nascono da una esigenza teologica, cio� dal fatto che non possiamo parlare direttamente del Regno di Dio, che va oltre le nostre esperienze, ma solo indirettamente, "in parabole", mediante paragoni presi dalla nostra vita. Le parabole si radicano nella vita quotidiana.

E' questo lo spunto che Mc. sviluppa e ne fa la tesi centrale del discorso. Egli prende l'occasione delle parabole, per introdurre due motivi che gli sono cari:

a.      l'incapacit� dell'uomo a capire i misteri del Regno di Dio e, quindi, la necessit� di un dono che venga dall'alto.

b.     La distinzione fra coloro che sono "dentro" (e comprendono) e coloro che rimangono "fuori" (e non comprendono).

A questo punto dobbiamo fare due precisazione (saranno le parabole stesse ad offircele):

- in che cosa consiste il "mistero" da comprendere? E quali sono le condizioni per comprenderlo? Il segreto del Regno di 4,11 non si identifica con il segreto messianico, cio� con l'interrogativo "chi � Ges�?", i discepoli infatti, continueranno fino al cap. 8 a non comprendere chi � Ges�.

- Quanto all'altro aspetto, Mc. ci ha detto nel capitolo precedente che il discepolo � colui che si stacca dalla folla e si decide per la sequela: ora ci dice che il discepolo � colui a cui � dato di comprendere, e comprende perch� � "dentro" e non � rimasto "fuori", perch� � in comunione con Cristo. Non una generica comunione con il ricordo di Ges� (la comunione non � semplicemente un fatto di memoria) ma una comunione con il Cristo vivente "oggi" e parlante nella "comunit�". Solo chi � inserito nella comunit� pu� comprendere. Il segreto del Regno di Dio lo si coglie dall'interno. Per chi vive nella comunit� la parola di Ges� (che ora viene annunciata nella Chiesa) � una parabola che rischiara; per chi invece rimane fuori � un enigma che lascia perplessi.

 

IL SEMINATORE (4, 1-9)

Ges� in questa parabola non si accontenta di dire che i fallimenti di oggi si tramuteranno in premio domani. Egli intende piuttosto affermare che il Regno di Dio � "gi�" presente (anche se a livello di seme e anche se apparentemente smentito): il Regno � qui, in mezzo alle opposizioni, in mezzo ai fallimenti. Ma resta pur vero che i fallimenti si tramuteranno in successi, e cos� la parabola diventa un "incoraggiamento" per coloro che lo annunciano. La parabola attira l'attenzione sul lavoro del seminatore - un lavoro abbondante, senza misura, senza paura dello spreco - eppure, dice Ges�, � certo che da qualche parte frutter�, abbondantemente. Perch� il fallimento � solo apparente: nel Regno di Dio non vi � lavoro inutile, non vi � spreco.

Comunque - e cos� la parabola si fa "avvertimento" - successo o no, spreco o no, il lavoro della semina non deve essere calcolato, cauto, previdente: soprattutto non bisogna scegliere i terreni e buttare il seme in alcuni s� e in altri no. Il seminatore butta il seme senza risparmio e senza distinzione: proprio come ha fatto Cristo nel dono del suo amore verso gli uomini, la Chiesa e il mondo.

Come sapere - al tempo della semina - quali terreni fruttificheranno e quali no? Nessuno deve anticipare il giudizio di Dio. Dunque la parabola attira l'attenzione sulla presenza del Regno in seno alle contraddizioni della storia, presenza irraggiungibile da quei "criteri" di successo e fallimento sui quali gli uomini fondano le loro valutazioni.

Questo � gi� un primo aspetto da comprendere, importante soprattutto per la chiesa che annuncia la Parola, per i missionari, per i catechisti: essi non devono scoraggiarsi nel loro lavoro di annuncio e non devono lasciarsi distrarre dalle valutazioni degli uomini.

"Cominci� di nuovo ad insegnare presso il mare": questa notizia riprende il racconto di 3, 7-12 dopo l'interpolazione marciana di 3, 13-15.

"Il seminatore usc� a seminare": bench� la parabola incominci senza una formula di introduzione, ci� che si intende affermare � che "avviene nel Regno di Dio come di un seminatore che..."

"Lungo la strada, in luogo roccioso, tra le spine, nel terreno buono": la parabola consiste essenzialmente in un contrasto tra i tre tipi di terreno infruttuoso e il buon terreno nel quale il seme cresce fino a maturazione. E' su quest'ultimo che viene posto l'accento. Il regno di Dio, simile a un raccolto abbondante, si realizzer� sicuramente malgrado tutte le difficolt� incontrate dal seminatore. La parabola di Ges� rassicura: � vero che il suo ministero non ha molto successo, ma ci troviamo ora soltanto nella fase preparatoria del regno di Dio.

"Il trenta, il sessanta, il cento": un rapporto di 20 a 1 sarebbe gi� stato considerato un raccolto straordinario, qui si va oltre. Le cifre sbalorditive di Ges� hanno lo scopo di sottolineare la qualit� prodigiosa del glorioso regno di Dio che sta per venire.

"Chi ha orecchi per intendere, intenda": questo versetto agganciato alla parabola, inserito anche come introduzione alla sua interpretazione, implica che non tutti sono in grado di capire la parabola.

 

LO SCOPO DELLE PARABOLE (4, 10-12)

Marco ha inserito tre versetti, o per lo meno i vv. 11-12, tra la parabola e la sua interpretazione. Alcuni pensano che questo detto fu creato dalla Chiesa primitiva, altri pensano a un detto autentico di Ges�.

"Coloro che gli stavano attorno con i dodici": una frase ingombrante per indicare "i discepoli".

"A voi... a quelli che sono fuori": vista nel contesto di Mc. l'espressione presuppone la distinzione tra i giudei che con il loro rifiuto di Cristo hanno vanificato i loro privilegi, e la nuova comunit� che rimpiazza il vecchio Israele (cfr. Mc. 12,9). Da un Israele indurito, Ges� sceglie una nuova comunit� destinata a ricevere il mistero del regno di Dio.

"E' stato detto": passivo teologico "Dio ha detto".

"A voi � dato conoscere il mistero del Regno di Dio": Mt e Lc. hanno il plurale "i misteri", probabilmente pi� originale del singolare marciano. In Mc. il contenuto del "mistero" potrebbe essere determinato dalla mancanza di comprensione dei discepoli di fronte a quanto Ges� rivela di se stesso. Cos� il "mistero" � la conoscenza che il Regno di Dio ha fatto irruzione con Ges�, il Messia nascosto.

"In parabole": cio� "enigma", "simbolo".

"Affinch�": siccome le parole che seguono questa congiunzione sono una libera citazione di Is. 6, 9-10, � ragionevole completare il pensiero di Mc. cos�: "Affinch� (come sta scritto) essi possano vedere..." Pertanto Ges� non avrebbe usato le parabole con l'intenzione di nascondere la verit� a quelli di fuori.

 

INTERPRETAZIONE DELLA PARABOLA DEL SEMINATORE (4, 13-20)

La spiegazione della parabola (che sembra, come abbiamo gi� detto, un commento della comunit� allo scopo di attualizzare la parabola) sposta l'attenzione dal seminatore ai terreni. Non si rivolge pi� al predicatore, ma al discepolo che deve ascoltare per far tesoro della parola che ascolta.: gli rivela le diverse cause che possono portarlo a smentirsi. Di tali cause alcune possono sembrare eccezionali, come la tribolazione e la persecuzione, ma altre sono certamente quotidiane, come le preoccupazioni del mondo (oggi diremmo gli affari), il fascino della ricchezza e le ambizioni. L'avvertimento di Mc. non proviene da una concezione dualistica (rifiuto delle cose materiali perch� indegne, degli impegni della storia perch� terrestri, delle ricchezze perch� vanit�), ma si muove nella prospettiva della libert� per il Regno.

La Bibbia richiama sempre la perseveranza ogni volta che parla della fede. La fede � continuamente provata, deve resistere a ogni smentita. La fede esige coraggio e pazienza. Non si pu� essere discepoli senza la perseveranza.

"Il seminatore semina la parola": il termine "parola " ricorre otto volte in questi versetti, � un termine cristiano per designare il messaggio del vangelo (At. 6,7; 12,24; Col. 1,6.10; 1 Ts. 1,6; 1 Tm. 1,8; 1 Pt. 2,8; Gc. 1,21).

"Producono frutto": la presenza di questo tema fa pensare a un contesto di istruzione battesimale come origine di questa pericope (Mt. 3, 7-12; 13, 3-8. 18-23; Rm. 6, 21-22; 7, 4-6; Gal. 5, 22-24; Fil. 1,11; Ef. 5, 8-11; Col. 1, 10-13).

 

DETTI SULLA LAMPADA E SULLA MISURA (4, 21-25)

Qui Mc. coordina una serie di "detti" tra loro sconnessi e li riunisce in una parabola doppia (21-23 e 24-25).

"Si porta forse la lampada...": questo detto e la sua spiegazione del v. 22 corrispondono a 4, 11-12; le parabole nascondono la verit� a quelli di fuori, ma la verit� verr� alla fine manifestata.

"Con la misura con la quale...": questa similitudine corrisponde a 4, 13-20; questi detti sono un invito ad ascoltare attentamente la parola di Dio.

 

PARABOLA DEL SEME CHE SPUNTA DA SOLO (4, 26-29)

Questa parabola � propria di Mc. Ges� parla della semina e poi trascura, volutamente, tutto il lavoro che viene dopo: la siccit�, il maltempo, perch� ha una lezione precisa da offrirci: il Regno cresce "comunque". Non sono gli uomini che danno forza alla parola n� le loro resistenze sono in grado di trattenerla: il discepolo, perci�, deve spogliarsi di ogni forma di inutile ansiet�.

Come la parabola del seminatore, questa parabola � in contrasto tra la inattivit� del contadino dopo la semina e il raccolto (il compimento del regno di Dio). Il regno verr� sicuramente perch� esso ha gi� fatto la sua irruzione nel mondo nel ministero di Ges�, e come il seme, produrr� anch'esso inevitabilmente un raccolto. Questo concetto � espresso nel v. 29.

"Il seme cresce, senza che egli sappia come": Ges� aggiunge in questo modo il concetto che il regno di Dio non arriva improvvisamente ma cresce irresistibilmente da inizi nascosti.

 

IL GRANO DI SENAPA (4, 30-32)

Questa breve parabola trova il suo centro nel contrasto e nella continuit� tra l'umilt� del punto di partenza (il seme) e la grandezza del punto di arrivo (l'albero). Il Regno grandioso � gi� presente in questo piccolo seme, cio� nella vita e nella predicazione di Ges� prima, e nella vita e nella predicazione della comunit� cristiana poi. Il Regno di Dio � in questo seme. L'umilt� della situazione non deve diventare motivo di trascuratezza e di rifiuto. La parabola ci insegna a prendere sul serio le occasioni che si offrono qui, adesso: sono tutte umile e nascoste, ma nascondono la presenza del Regno.

"E' il pi� piccolo di tutti i semi": in verit� non lo �, ma non � questo il punto. Ges� sottolinea il contrasto tra i suoi inizi insignificanti e la grandezza inaspettata della pianta pienamente sviluppata.

"Gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra": un'allusione a Dan. 4,21 dove il regno di Dio � paragonato a quello di Nabucodonosor il cui impero raggiunge i confini della terra, offrendo un rifugio a tutti i popoli. Sia il contrasto tra il piccolo seme e la pianta pienamente sviluppata, sia la nozione della sua crescita, sono elementi essenziali nella parabola. Simboleggiano la continuit� organica tra il ministero di Ges�, cos� deludente per le speranze di Israele, e il futuro regno di Dio, che avrebbe incluso anche i gentili oltre che Israele.

 

CONCLUSIONE SULLE PARABOLE (4, 33-34)

Due conclusioni. Siccome il Regno � qui, in mezzo alle opposizioni e agli insuccessi, nel quotidiano, allora non dobbiamo fuggire dalla storia (anche se equivoca e meschina). Il discepolo sa vedere in tutto questo la promessa di Dio.

In un certo senso - ed � la seconda conclusione - nel Regno di Dio c'� uno spreco (tentativi ripetuti, ostinati, come il gesto del seminatore): non puoi risparmiarti. Ma � uno spreco solo per chi ragiona secondo i calcoli meschini degli uomini. In realt� nell'amore non c'� spreco, come non c'� nell'attivit� di Dio: c'� solo ricchezza di ostinazione e di fantasia, Dio si dona senza risparmio.

"Spiegava loro in parabole a seconda che essi potevano intenderla": cio� in proporzione alla loro capacit� di capirla. Questo v. presuppone che la gente capisse le parabole in una certa misura; ma ci� sembra in contraddizione con il v. seguente, il 34.

"Egli non parlava loro senza parabole, ma ai propri discepoli, a parte, spiegava tutto": questo v. sembra voglia dire che le parabole erano incomprensibili a meno che venissero spiegate, e che questa "spiegazione" era riservata unicamente ai discepoli. Molti commentatori pensano che il v. 33 rifletta l'intenzione di Ges� nell'uso delle parabole: svelare la verit�, e che il v. 34 rifletta l'assunto di Mc. che lo scopo delle parabole fosse di nascondere la verit� a quelli di fuori. E' comunque possibile che entrambi i vv. siano pre-marciani e riflettono l'opinione secondo la quale il vero significato di una parabola non � percepibile se non a condizione che venga accompagnata da una spiegazione simile a quella che riscontriamo in 4, 13-20.

L'opinione dell'evangelista, tuttavia, � diversa. Non � che i discepoli abbiano semplicemente ricevuto una spiegazione delle parabole; essi ricevettero il mistero del regno di Dio, e questo non soltanto attraverso la spiegazione delle parabole offerte loro da Ges� ma anche attraverso l'intero corso della sua istruzione riservata a loro. Di conseguenza, la spiegazione delle parabole era soltanto un momento del processo mediante il quale Ges� inizi� i suoi discepoli al mistero del regno di Dio. La discrepanza, pertanto, non � tra i vv. 33 e 34, ma tra il significato dei due vv. cos� come furono interpretati nella fonte di Mc. e il loro significato cos� come viene percepito nel contesto dell'intero vangelo marciano.

 

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I MIRACOLI (4, 35-5,43)

Dopo il discorso in parabole, ecco quattro miracoli compiuti da Ges�: Marco rimane fedele al suo schema iniziale: Ges� si rivela mediante le "parole" e le "opere". Questi miracoli, collocati qui, subito dopo il discorso intorno al mistero del Regno, potrebbero dare l'impressione di essere una conferma del discorso stesso, quasi un sigillo impresso da Dio allo scopo di garantire le parole di Ges�.

In realt� sono molto di pi�. Sono essi stessi una rivelazione e intendono manifestare, prolungando il discorso precedente, alcune caratteristiche della presenza del Regno.

I miracoli nel vangelo di Mc., pur essendo, in qualche modo, una garanzia al servizio della fede, tuttavia devono essere letti alla luce della fede.

I tre racconti svolgono dunque il motivo della fede. Ci avvertono che si pu� essere uomini di poca fede in due modi: c'� la poca fede di chi non ha il coraggio di lasciare tutto per Cristo, e c'� la poca fede di chi, avendo lasciato tutto per Cristo, pretende per� (nei momenti difficili) una presenza chiara del Signore, consolante, accompagnata da ripetute verifiche. E' ancora una fede immatura, perch� confonde il "silenzio" con l'assenza del Signore, confonde il permanere delle opposizioni con la sconfitta del Regno.

A differenza dei parenti increduli della fanciulla ("tua figlia � morta, perch� disturbi ancora il Maestro?"), il discepolo deve ostinarsi a credere anche di fronte alla morte ("la fanciulla non � morta, ma dorme"). Quella del discepolo � una fede ostinata, al punto che pu� perfino suscitare derisione ("si facevano beffe di lui"), ma �, in ogni modo, una fiducia incrollabile: di fronte alla potenza del Cristo nessuna situazione � disperata.

 

LA TEMPESTA SEDATA (4, 35-41)

Si considera di frequente questa pericope come basata su un ricordo personale di Pietro. Ciononostante l'evento � stato talmente rielaborato nella sua trasmissione che � impossibile isolare il puro fatto dalla sua interpretazione ecclesiale cristiana.

Ad esempio: perch� notare che "altre barche erano con lui", e poi non dire nulla sulla loro sorte? E come � possibile che uno possa dormire tranquillo a poppa, mentre le onde infuriano e l'acqua ha gi� quasi completamente riempito la barca? Evidentemente Mc. non ci offre un racconto esatto dell'avvenimento. Il fatto storico del come i discepoli furono salvati non gli interessa: � un fatto del passato che non pu� pi� ripetersi. Gli interessa, invece, il motivo centrale del fatto e la sua attualizzazione. Quale?

Rileggiamo il racconto: � assai probabile che il v. 40 ("perch� siete cos� paurosi? Come mai non avete fede?") sia un versetto redazionale, aggiunto da Mc. stesso a un racconto preesistente e gi� configurato con una propria finalit�.

In effetti il v. 40 non concorda perfettamente con il resto della narrazione. E se lo tralasciassimo, ci troveremmo di fronte a un racconto coerente, completamente orientato sulla persona di Ges�: Ges� � potente, il suo comando sa calmare la furia del mare: chi � costui?

Con la sua piccola aggiunta Mc. ha cambiato notevolmente il significato dell'episodio: l'attenzione non � pi� rivolta alla potenza di Ges�, ma alla fede dei discepoli. Il discepolo, che ebbe tanta fede per staccarsi dalla folla e seguire Ges�, non deve - ora che si trova al suo seguito - pretendere una presenza divina costantemente attiva e vittoriosa; la fede matura sa rendere tranquilli anche nelle difficolt� e sereni anche nella persecuzione.

Probabilmente l'evangelista ha voluto offrire un messaggio di speranza alla Chiesa perseguitata e, forse, scoraggiata di fronte al silenzio del Cristo risorto.

La lettura ci porta, dunque, a concludere che l'evangelista Mc. ha utilizzato un racconto preesistente, sviluppandolo e orientandolo nella prospettiva della fede

"Lasciando la folla": questo e i seguenti miracoli sono operati a beneficio dei discepoli.

"Maestro non t'importa che moriamo ?": il vocativo "Maestro" sembra un'aggiunta al credo primitivo, infatti, altrove in Mc. questo vocativo si riscontra in pericopi catechetiche (9,17.38; 10,17.20.35; 12,14.19.32, 13,1), e la presenza di appellativi analoghi nei racconti di miracoli � motivata da interessi catechetici (per es.: vedi il commento a 2,10).

"Disse al mare: taci, calmati!": il riferimento religioso in questo miracolo � visto nel suo contesto veterotestamentario, dove l'opera di Dio nella creazione � descritta come una vittoria sul mare o sul dragione del mare (Gen. 1,2; Sal. 89,10; Gb. 9,8; 26, 12-13) e trova il suo parallelo nella liberazione di Israele (Sal. 74, 12-14; Is. 51,9; Es. 15,8; Is. 63, 12-13). Qui Ges� mostra lo stesso dominio sul mare nel suo proprio ministero redentivo.

"Chi � dunque costui al quale il vento e il mare obbediscono?": l'uso del verbo presente "obbediscono" mostra che quest'evento fu raccontato non tanto come un avvenimento storico del passato, quanto come una realt� simbolica dell'attuale potere di Cristo di liberare la sua Chiesa dalla tribolazione.

 

L'INDEMONIATO DI GERASA (5, 1-20)

E' innegabile che nel racconto sono mescolati tratti popolari, pittoreschi e non privi di umorismo: per esempio quel particolare dei demoni che chiedono il permesso di entrare nei porci per poi precipitarsi nel mare.

L'analisi critica, inoltre, non avrebbe difficolt� a scorgere nel racconto incoerenze, ripetizioni, lacune che rivelano diversi adattamenti e molteplici riletture. Ma non � questo che ci interessa. Se lo leggiamo con occhi penetranti e col desiderio di scorgervi un messaggio (ed � questa l'intenzione dell'evangelista), allora il racconto rivela finezze impensate e ricche intuizioni teologiche.

Ges� arriva nella regione dei Geraseni, (Gerasa � a circa 53 km. a sud-est del lago di Genezaret) o Gadareni (di Gadara a circa 9,5 km. a sud-est del lago)) o Gergeseni (di Gergesa, un luogo non identificato), cio�, in territorio pagano: la presenza del Regno non � chiusa entro i confini di Israele. Un uomo posseduto dal maligno vive tra i sepolcri, fuori della citt�. La societ� lo ha messo al bando, come sempre. E' il modo pi� rapido di risolvere il problema: si chiude il malato nella sua malattia e lo si immobilizza nella sua situazione, perch� non disturbi. La vocazione di Ges� � invece quella di andare verso coloro che il corpo sociale tiene distante. Lo sviluppo del racconto mostrer� che proprio loro sono in attesa di Cristo, aperti alla guarigione e al perdono.

L'indemoniato fa gesti folli, insensati e scomposti: "notte e giorno andava gridando e percuotendo se stesso con pietre" (5,5). E' un povero uomo sconnesso nelle sue facolt�, non pi� padrone di s�.

Il racconto mostra che l'incontro con Ges� (cio� l'arrivo del Regno di Dio) non � soltanto una guarigione, ma una vera liberazione, un ritrovare se stessi, una riconquista della propria autenticit�.

Il racconto offre un ultimo spunto. "mentre Ges� saliva sulla barca, colui che era stato indemoniato gli chiese il permesso di stare con lui" (5,18). Ma Ges� non glielo permise: perch�? Forse perch� l'ora dei pagani non era ancora giunta. Ma non � il caso di speculare sulla ragione del rifiuto di Ges�. La cosa importante � che qui Ges� non impone "il segreto messianico" come lo impose, invece, ai giudei, e che l'uomo se ne va in giro "proclamando" quanto Ges� aveva fatto per lui.

"Nessuno lo poteva pi� legare": Mc. accentua graficamente l'impossibilit� di soggiogare il maniaco, forse per simboleggiare il popolo ribelle descritto in Is. 65,2.

"Qual � il tuo nome?": Ges� � descritto come colui che domina il suo avversario di cui tiene a conoscere il nome.

"Legione": qualche commentatore (Jeremias) � dell'opinione che nell'originale aramaico fosse "ligjona" (soldato); cos� "Il mio nome � Soldato, dato che noi demoni siamo un grande esercito" e assomigliamo l'uno all'altro come � dei soldati. Un traduttore interpret� la parola aramaica nel suo significato alternativo di "legione", e pens� che ci� volesse indicare una pluralit� di demoni, e, di conseguenza, aggiunse i vv. 12-13. Questo spiegherebbe perch�, all'infuori dei vv. 10.12.13, non c'� alcuna indicazione che l'uomo fosse posseduto da pi� di un demonio.

"Un numeroso branco di porci": cfr. Is. 65,4 dove si dice che la gente siede sulle tombe, passa le notti nelle caverne, e mangia carne di porco.

"Il branco si precipit� nel burrone": immagine, secondo qualche commentatore (Sahlin) dell'annientamento del potere che tenne schiavi i pagani (cfr. lo sterminio dei profeti di Baal operato da Elia 2 Re 18,40).

"Non glielo permise": lo stile e il vocabolario tradiscono la mano dell'evangelista e il suo interesse a interpretare questi ultimi versetti (18-20) come un'immagine dei gentili desiderosi di seguire Cristo.

 

L'EMORROISSA E LA FIGLIA DI GIAIRO (5, 21-43)

La legge dichiarava "impura" una donna che aveva perdite di sangue (Lev. 15,19.25), e impuro diventava tutto ci� che essa toccava: ecco perch� la donna tocca la veste di Ges� di nascosto, approfittando della folla, ed ecco perch� si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed � per lo stesso motivo che Ges� d� pubblicit� all'accaduto: vuole dichiarare di fronte a tutti, che non si sente impuro perch� una donna l'ha toccato e che le categorie del puro e dell'impuro non lo interessano: Dio non bada al puro o all'impuro ma alla fede.

La collocazione di un racconto nel mezzo di un altro si riscontra altre quattro volte nel vangelo di Marco: 3, 19b-21 (22-30) 31-35; 6, 6b-13 (14-29) 30; 11, 12-14 (15-19) 20-25; 14,53 (54) 55-65 (66-73).

Il comportamento della donna, come quello di Giairo, � presentato come esempio dell'accesso a Cristo mediante la fede.

"Ges� avvertita la potenza che era uscita...": Ges� viene descritto come uno che possiede un potere risanatore quasi magico che opera automaticamente al solo contatto con lui. Conseguentemente i vv. seguenti correggono un possibile malinteso e mostrano che la fede � una disposizione necessaria, affinch� il miracolo possa attuare la pi� profonda realt� salvifica che esso simboleggia: "Figlia, la tua fede ti ha salvata".

"La tua figlia � morta": questa notizia solleva la questione della fede di Giairo non soltanto nella potenza risanatrici di Ges� (5,23), ma nel suo potere di risuscitare i morti.

"Perch� disturbi ancora il Maestro?": le parole dei messaggeri tradiscono la loro mancanza di fede.

"La bambina non � morta ma dorme": � impossibile decidere se Ges� intendesse ci� letteralmente oppure teologicamente (cio�, la sua morte � soltanto un sonno). L'impostazione pasquale del vangelo, comunque, pone chiaramente in risalto che per Mc. i miracoli di Ges� simboleggiano il passaggio dalla morte (la schiavit� del peccato e del demonio) a nuova vita.

"Talitha koum": Mc. conserva le parole ebraiche o aramaiche e le traduce per i lettori pagani.

"Si alz� e si mise a camminare": il verbo "anistemi" e il sostantivo "anastasis" sono usati per la risurrezione di Cristo (Mc. 8,31; 9,9.31; 10,34; At. 1,22; 2,24.31.32; 4,33; 10,41; 13,33.34; 17,3.31; Rm. 1,4).

 

CONCLUSIONE: GESU' RIFIUTATO DAI SUOI CONCITTADINI (6, 1-6a)

Questo brano nell'economia del vangelo di Mc. ha una grande importanza cristologica: costituisce una tappa fondamentale nel viaggio di Ges� verso la croce.

Leggendo l'episodio non si pu� fare a meno di pensare all'affermazione del prologo di Giovanni: "E' venuto nella sua casa e i suoi non l'hanno accolto".

Letto in questo modo, l'episodio va molto al di l� del rifiuto di un piccolo paese della Galilea: prefigura il rifiuto dell'intero Israele, un rifiuto, del resto, che sembra accompagnare tutta la storia del popolo di Dio.

E anche le motivazioni del rifiuto vanno molto al di l� delle resistenze particolari degli abitanti di Nazareth: sono le resistenze di sempre, radicate nel cuore dell'uomo. Per questo il brano di Mc. ci coinvolge seriamente.

Gli abitanti di Nazaterh non negano la sapienza di Ges�, i suoi miracoli, la lucidit� della sua predicazione: ne sono, anzi, sorpresi. Ma ne contestano l'origine (v. 3). Ha fatto il carpentiere come tutti, � cresciuto fra noi, conosciamo sua madre e i suoi fratelli, come pu� venire da Dio?

Ecco una prima e fondamentale ragione di rifiuto: la presenza di Dio invisibile sotto apparenze comuni. La grandezza di Dio sembra contraddirsi, e ci� costituisce uno scandalo.

Risentiamo l'interrogativo degli abitanti di Nazareth: "Donde gli vengono queste cose? E che sapienza � questa che gli � stata data?". In altre parole, essi dicono: "Come si spiega la tua sapienza, la novit� e l'efficacia della tua dottrina?".

La risposta � gi� nell'interrogativo stesso: � una sapienza "donata", che non viene dall'uomo o da una scuola, ma da Dio.

Ma questa risposta � dell'evangelista, non degli abitanti di Nazareth. Nonostante la meraviglia per una sapienza che non si spiega da s�, essi non credono. Lo scandalo non � tanto perch� Ges� � un falegname, ma perch� � "uno di noi, lo conosciamo".

Il rifiuto dei suoi non costituisce per Cristo una sorpresa. Che un profeta sia rifiutato dal suo popolo non � una novit�. La novit� sarebbe se mai il contrario. Ma Dio � sempre dalla parte dei profeti anche se questi sono sempre rifiutati. Gli uomini di Dio sono sempre tolti di mezzo, salvo per costruire loro pi� tardi i monumenti.

L'episodio termina con una valutazione dello stesso evangelista: "Non poteva fare l� alcun miracolo" (v. 5). Ges� non pu� fare miracoli l� dove c'� l'incredulit� ostinata. A che servirebbero? I miracoli di Cristo sono la risposta alla sincerit� dell'uomo che cerca la verit�: non sono il tentativo di forzare, in ogni modo, il cuore dell'uomo.

Diversamente dagli uomini Dio non usa la violenza per imporre i propri diritti. E neppure fa miracoli l� dove gli uomini pretendono segni che permettono loro di sottrarsi al rischio della fede: i segni di Dio non sono evidenti a ogni costo. E neppure fa miracoli l� dove gli uomini vorrebbero sfruttarli per s�, a sostegno delle loro pretese.

Per tutto questo Ges� non fa miracoli a Nazareth. Ma l'affermazione, in termini cos� assoluti, � inesatta e Mc. la corregge: "Guar� soltanto alcuni infermi" (v. 5). Dunque anche a Nazareth Ges� ha cercato gli ammalati e i poveri. Dio li cerca dovunque. Ma non sono questi i miracoli che gli uomini vorrebbero.

Il significato di questo episodio � ovvio: � una finale drammatica e tragica del ministero galilaico di Ges� ("si meravigliava della loro incredulit�") e prefigura il grande rifiuto d'Israele; nel contempo esso segnala una nuova fase del ministero nella quale i dodici avranno un ruolo pi� attivo (6, 7-13.20) come un'anticipazione della missione della Chiesa apostolica, specialmente di coloro che erano al di fuori del giudaismo.

"Sua citt� natale": il rifiuto da parte di Nazareth del suo concittadino prefigura il rifiuto finale da parte del suo popolo.

"Si mise ad insegnare": c'� una certa similitudine tra questa pericope e quella di 1, 21-27; ma mentre la prima comparsa di Ges� nella sinagoga incontr� entusiasmo per il suo insegnamento e i suoi miracoli, qui l'entusiasmo si trasforma prima in scetticismo (v. 3a), poi in opposizione (v. 3b), e infine in sconfessione (v. 6a).

"Donde gli vengono tali cose?": interrogativi del genere caratterizzano un po' tutto il vangelo di Mc. (1,27; 2,7; 4,41) e hanno la funzione di manifestare sempre pi� la persona e la missione di Ges�.

"Il falegname, il figlio di Maria": Mc. 6,3 � l'unico testo del N.T. che chiami Ges� "il figlio di Maria". Era un'usanza giudaica far riferimento a un uomo come al figlio di suo padre (Lc. 3,23; 4,22; Gv. 1,45; 6,42). Alcuni pensano che "il figlio di Maria" pu� essere interpretato come un insulto. Altri credono che sia una lettura errata, considerando che: Origene afferma che in nessuna parte del vangelo si parla di Ges� come di un falegname, e che molti manoscritti parlano del "figlio del falegname", come si riscontra in Mt. 13,55.

"Il fratello e le sorelle": il termine "fratello" dall'ebraico 'ah (aramaico 'aha) indica una vasta sfera di rapporti compresi cugini e fratellastri. La frase aramaica "fratello di Ges�" diventata per cos� dire tradizionale, fu conservata tale e quale nel greco, sebbene si tratti in realt� di soli "cugini" o "parenti".

"Giacomo": non � uno dei dodici, probabilmente � il primo vescovo di Gerusalemme.

"Giuseppe, Giuda e Simone": sono sconosciuti.

"Un profeta non � disprezzato...": questo detto, in una forma pi� vicina a quella di Lc. 4,24, � conservato dai copti, nel loro "Vangelo secondo Tommaso" che dice: "Nessun profeta � accettato nel suo villaggio; nessun dottore cura coloro che lo conoscono".

 

GESU' E I SUOI DISCEPOLI (6,6b-8,33)

a) Resoconto-sommario (6,6b).

Con questo sommario inizia una nuova fase del ministero di Ges�, rifiutato dai suoi concittadini e dai suoi parenti, si dedica intensamente ai suoi discepoli e li prepara alla loro missione.

b) Missione e ritorno dei discepoli (6, 7-13.30).

I dodici erano stati scelti perch� "stessero con lui" e perch� "predicassero" (3, 14-15). Nei capitoli precedenti li abbiamo visti staccarsi dalla folla e seguire Ges�, ascoltare e imparare, fare vita comune con lui; ora (6, 7-13) Mc. ci mostra la seconda dimensione del discepolo: quella missionaria.

Per descrivere la missione dei discepoli Mc. usa le stesse parole adoperate lungo tutto il vangelo, per descrivere la missione di Ges�: predicavano la conversione, guarivano gli ammalati, scacciavano i demoni (vv. 12-13).

La missione dei discepoli trova in quella di Cristo il motivo e il modello. Ci� suppone da parte del discepolo una triplice consapevolezza:

- la consapevolezza di un'origine divina ("li mand�"), cio� di una partenza voluta da un altro e non decisa da noi, di un progetto in cui siamo coinvolti ma di cui non siamo i registi;

- la consapevolezza di uscire da s�, e di andare altrove, in posti nuovi, perennemente in viaggio;

- la consapevolezza, infine, di possedere un messaggio nuovo e lieto da offrire.

Si noti l'insistenza sulla povert� come condizione indispensabile per la missione: n� pane, n� bisaccia, n� soldi, solo un bastone, un paio di sandali e una tunica (vv. 8-9). E' una povert� che � fede, libert� e leggerezza: un discepolo appesantito dai bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di cogliere la novit� di Dio e abile nel trovare mille ragioni di comodo per giudicare irrinunciabile la casa nella quale si � accomodato e dalle quale non vuole pi� uscire (troppe valigie da fare, troppe sicurezze a cui rinunciare!).

Ma la povert� � anche fede: � il segno di chi non confida in se stesso, di chi non vuole essere al sicuro da tutto.

C'� infine un terzo aspetto che non si pu� dimenticare. L'atmosfera "drammatica" della missione. E' forse la nota dominante dell'intero capitolo: c'� la drammaticit� del rifiuto e la drammaticit� della contraddizione. Due sofferenze che il discepolo deve coraggiosamente affrontare. Il rifiuto � previsto (v. 11): la parola di Dio � efficace, ma a modo suo. Il discepolo deve proclamare il messaggio e in esso giocarsi completamente. Ma deve lasciare a Dio il risultato. Al discepolo � stato affidato un compito, non garantito il successo.

E c'� un'atra drammaticit�: quella della contraddizione, che � ancora pi� interiore alla natura stessa della missione. L'annuncio del discepolo non � un'istruzione teorica, ma una parola che opera, nella quale si fa presente la potenza di Dio, una parola che coinvolge e di fronte alla quale bisogna prendere posizione. Dunque una parola che disturba, che suscita contraddizioni, che sembra portare la divisione l� dove c'era la pace, il disordine l� dove c'era ordine. La missione �, come dice Mc., una lotta contro il maligno: dove giunge la parola del discepolo, Satana � costretto a rivelarsi, e il peccato, l'ingiustizia, la sopraffazione sono costretti a venire alla luce, e fanno resistenza.

Ecco perch� il discepolo non � solo un maestro, ma un testimone che dalla parte della verit�, della libert� e dell'amore si impegna nella lotta contro Satana.

Ora vediamo il brano dal punto di vista esegetico.

Un confronto di questo episodio con il materiale parallelo sinottico rende probabile la tesi che Mc. e Mt. abbiano attinto a una narrazione primitiva che includeva in una unit�:

1.     l'elezione dei dodici (Mc. 3, 13-19; Mt. 10, 1-4; Lc. 6, 12-16).

2.     La missione dei discepoli (Mc. 6,7.12-13; Mt. 10, 1-4; Lc. 9, 1-2.6; 10,1).

3.     Un discorso di Ges� ai missionari in partenza (Mc. 6, 8-11; Mt. 10, 5-42; Lc. 9, 3-5; 10, 2-16).

Marco ha separato 1. da 2. e ha drasticamente abbreviato 3.

L'effetto di questi cambiamenti redazionali in Mc. � di presentare la missione dei discepoli pi� che come un resoconto della loro predicazione, come una preparazione per l'auto-rivelazione di Ges� a essi come Messia.

"Ordin� loro": lo stesso verbo � usato in Mt. per introdurre il discorso della missione in 10,5. Mc. per�, ha adattato le istruzioni di Ges� introducendo parecchie eccezioni che fanno pensare a uno stadio posteriore di attivit� missionaria: quello della Chiesa al di fuori della Palestina. Per lo stesso motivo Mc. omette la proibizione di andare "fra i gentili e nelle citt� dei samaritani" (Mt. 10,5).

"Non pane": questa menzione � enfatica (una esagerazione). E' una preparazione ai miracoli di cui in 6, 35-44 e 8, 1-9, dove Ges� procurer� il pane.

"Cacciavano molti demoni": una prosecuzione della stessa attivit� messianica di Ges� (1, 34-39.43; 3, 22-23; 7,26).

"Ungevano con olio molti malati": anche i poteri taumaturgici dei discepoli sono una prosecuzione di quelli di Ges� (1,34; 3,2-10; 6,5). Nell'unzione con l'olio la Chiesa vede una prefigurazione dell'unzione sacramentale degli ammalati.

c) Opinioni su Ges� (6, 14-16)

Nessuno contesta che Ges� operi con autorit�. Ma diversa � l'interpretazione che ne viene data. I parenti lo hanno giudicato fuori di s� (3,21). Gli Scribi hanno attribuito le sue opere a Satana (3,22). Ora la folla cerca di darsi ragione del fenomeno ricorrendo alle categorie religiose che appartenevano alla superstizione popolare.

La sola ragione che non viene presa in considerazione � la presenza di Dio in Ges�, una presenza da ascoltare, dalla quale lasciarsi convertire, non invece da spiegare, catalogare, integrare in un contesto gi� costituito.

Erode sembra pensare a Ges� come a Giovanni Battista redivivo, ma non prendiamolo troppo sul serio. Uomini come Erode non credono a queste cose, preferiscono lasciarle al popolo, salvo approfittarne quando fa comodo.

Qualche ammirazione per uomini coerenti e integerrimi come il Battista ce l'hanno, ma non al punto da lasciarsi da loro convertire. Sono pronti a lasciar spazio ai profeti, purch� le loro denunce si fermino alla periferia, quando i profeti arrivano al nocciolo della questione, li fanno tacere. Tutto ci� mette in pericolo il loro potere e allora viene tolto di mezzo senza scrupolo.

In Mc. l'annotazione (concernente il giudizio di Erode su Ges�) � pi� completa di quella di Mt. 14, 1-2. L'altra annotazione 6, 14b-15 (concernente il giudizio degli altri) � un'anticipazione di 8,28. L'accento � posto su questa aggiunta ed evidenzia il tema dell'intera pericope fino a 8,30: chi � Ges�?

d) Morte di Giovanni Battista (6, 17-29)

Marco non pone qui il martirio di Giovanni per esigenze di ordine storico, ma per una intenzione teologica. Collocato tra l'invio in missione dei discepoli e il loro ritorno, l'episodio acquista un significato preciso: � un segno premonitore dell'opposizione del mondo a Ges� (e ai suoi seguaci) e della loro sorte: il martirio (sia per Ges� che per gli apostoli).

Marco riporta una versione popolare della fine del Battista: la sua morte � stata causata dal rimprovero rivolto da Giovanni ad Erode per il suo peccato di adulterio con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo.

Mentre la versione di Giuseppe Flavio � diversa: Erode temendo che egli con la sua grande influenza potesse spingere i sudditi alla ribellione fece imprigionare Giovanni nella fortezza del Macheronte sul lato est del Mar Morto, dove alla fine lo fece decapitare (Antichit� giudaiche 18,119).

L'evangelista non d� importanza alle particolarit� storiche, preferisce la versione popolare. Cos� il profeta muore per la malvagit� di una donna e la debolezza di un sovrano. Sembra una tragica ironia che rientra nello scandalo della storia. Da che mondo � mondo, i giusti sono spesso morti per cose di poco conto, barattati per cose di poco prezzo: l'onore della bandiera, il prestigio, la faccia da salvare.

Ricapitolando, Mc. ha presentato la morte del Battista in termini molto analoghi a quelli che si riscontrano nella storia di Ester, sviluppando il parallelismo tra Giovanni e Ges�, ne ha fatto un'anticipazione del destino di Ges�.

e) Il ritorno degli apostoli (6,30)

Questo versetto chiude la sezione iniziata in 6,7 (la missione dei Dodici). Questo � l'unico passo marciano in cui i dodici sono chiamati "apostoli", mentre egli di solito li chiama "discepoli".

Il ritiro di Ges� nel deserto � chiaramente motivato dall'uccisione di Giovanni da parte di Erode.

 

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LA SEZIONE DEI PANI (6,31-8,26)

Questa sezione � basata su un'unit� pre-sinottica ed � composta dalle due moltiplicazione dei pani (6, 31-44; 8, 1-9) e da una pericope che si riaggancia a entrambi questi miracoli (8, 14-21).

La tradizione evangelica ha dato al miracolo della moltiplicazione dei pani molta importanza.

Marco (e Matteo) riporta due moltiplicazioni dei pani talmente simili che � difficile evitare la conclusione che si tratti di due versioni del medesimo episodio. Bisogna perci� leggere i due racconti insieme. E bisogner� chiedersi perch� Mc. ha ritenuto ambedue le versioni, anzich� accontentarsi di una sola come Luca?

Innanzitutto diciamo che Mc. trov� due racconti della moltiplicazione dei pani e li inser� ambedue nel vangelo a distanza ravvicinata: quale pu� essere lo scopo di un cos� evidente doppione?

I due racconti non sono una pura e semplice ripetizione; nel secondo vi sono elementi nuovi rispetto al primo, come ad esempio una maggiore sottolineatura della misericordia di Ges� verso la folla (8, 2-3) e, soprattutto, � diversa l'ambientazione geografica: la seconda moltiplicazione avviene nella regione della Decapoli, cio� in territorio pagano. Gi� questo pu� rivelarci una prima intenzione di Marco: dopo aver raccontato che Ges� nutr� una folla giudaica di 5.000 persone, egli vuole raccontare che Ges� nutr� pure una folla pagana di 4.000 persone.

L'universalismo rientra negli interessi di Marco ed egli approfitta delle diverse occasioni per rompere il quadro giudaico della storia di Ges� e farci intravedere il suo significato universale.

 

A. PRIMA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI PER I 5.000 (6, 31-44)

Questa prima moltiplicazione dei pani � da leggere accanto alla seconda, ma ha un significato nel nostro contesto che non possiamo tralasciare: Ges� � rifiutato, ma egli cerca gli uomini ostinatamente, � pronto a rinunciare alla sua solitudine per aiutarli. D'altra parte Egli � sempre pi� incompreso: alla incredulit� di Nazaret e di Erode corrisponde la poca fede dei dodici (6,30 ss.). Anch'essi hanno il cuore indurito.

"Riposatevi un po'": Mt. 14,13 indicherebbe che il ritiro di Ges� nel deserto fu determinato dall'uccisione di Giovanni per mano di Erode; Mc. invece, indica il "riposo" dopo la missione, come la motivazione del ritiro di Ges� nel deserto.

"Il luogo � deserto": l'accento sul deserto, sul mangiare e sul pane richiama alla mente il miracolo della manna (Es. 16, 12-35).

"Prese i cinque pani": la descrizione dei gesti originali di Ges� � stata ampliata con dettagli presi dall'istituzione dell'Eucarestia. (14,22).

"Dodici ceste": gli avanzi, simbolo dei doni sovrabbondanti di Dio (Es. 16, 19-24), sono sufficienti per sfamare le dodici trib� del nuovo Israele. Al termine di questo miracolo non ci sono le solite espressioni di meraviglia e ci� corrobora l'impressione che Mc. lo abbia voluto presentare non tanto come un miracolo quanto come un segno messianico che svelasse ai dodici il segreto della persona di Ges�.

 

B. GESU' CAMMINA SULLE ACQUE (6, 45-52)

Tutti e tre gli evangelisti (Mc. Mt. Lc.) collocano questo miracolo dopo il miracolo del pane, all'apice della popolarit� di Ges� in Galilea.

"Costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca": c'� un costante contrasto tra Ges� e i dodici; qui viene espresso nella loro riluttanza a partire.

"Sal� sul monte a pregare": il fatto che Ges� si ritiri dai dodici per pregare fa pensare che il fervore messianico costituisse per lui una tentazione.

"Il vento era contrario": nessuna delle narrazioni menziona esplicitamente una tempesta.

"Credettero che fosse un fantasma": questo stesso motivo ricorre nelle apparizioni pasquali (Lc. 24, 37-39).

"Sono io": la parola di Ges� arriva come una risposta alla domanda dei discepoli in 4,41. E' una formula di rivelazione (lett. "Io sono"), attribuita solo a Dio (Es. 3,14).

"Non avevano capito il fatto dei pani": la conclusione di Mc. � totalmente diversa da quella di Mt. 14,53; l'evangelista Mc. pone chiaramente in evidenza che i discepoli furono incapaci di comprendere il segreto dell'identit� di Ges� (4,13.40, 7,18; 8, 17-21). Se essi avessero penetrato il mistero della moltiplicazione miracolosa, avrebbero riconosciuto chi era colui che veniva camminando sulle acque del mare.

 

C. GUARIGIONI A GENEZARET (6, 53-56)

La presenza di Ges� sulla sponda occidentale dopo la moltiplicazione miracolosa e la traversata del lago � di nuovo menzionata in Mc. 8,10.22 e in Gv. 6, 24-25. Ma il nome del luogo varia: Dalmanuta (Mc. 8,10), Betsaida (Mc. 8,22); Genezaret (Mc. 6,53), Cafarnao 8Gv. 6,24).

Il resto di questa pericope � una composizione riassuntiva dell'evangelista che usa materiali isolati tradizionali, pi� ampiamente narrati altrove.

"La gente l'aveva riconosciuto": le folle entusiaste della Galilea servono da introduzione-contrasto all'ostilit� dei capi di Gerusalemme (7, 1-23).

"Tutti quelli che lo toccavano, erano guariti": anche le guarigioni sono menzionate con il verbo al passivo e l'impressione � che Ges� stesse ancora cercando, senza riuscirvi, di sfuggire alle folle.

 

D. DISPUTA SULLE TRADIZIONI FARISAICHE (7, 1-23)

Il capitolo 7 ci offre un interessante dibattito intorno alla legge e alla tradizione.

Gli Scribi erano i teologi e gli interpreti della legge: la loro ambizione era la fedelt� alla volont� di Dio. Ma credevano di essere fedeli alla legge "ripetendola" e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre pi� complicata. In tal modo finivano col chiudere la legge e con l'allontanarla sempre pi� dall'autentica volont� di Dio. Non � allargando o modificando la casistica che si attualizza la legge.

Inizialmente la Legge o Tor� comprendeva solo il Pentateuco, successivamente la riflessione portata avanti da Scribi, Farisei e dai Profeti sul Decalogo, entr� a far parte del grande nucleo della Legge.

La Tor�, quindi, sarebbe la grande riflessione fatta lungo i secoli da Scribi, Farisei, Sacerdoti e Profeti, necessaria per vivere nella libert� e rimanere popolo di Dio.

Possiamo dire che questa riflessione si colloca in un momento storico molto preciso: nell'anno 440 a.C. al tempo del governatore Neemia (Libro di Neemia cap. 8), la Legge (che comprendeva ormai tutto l'A.T.) viene portata davanti al popolo e lo scriba Esdra, spiega la Legge di Mos�.

Qui inizia quella grande tradizione che va sotto il nome di tradizione orale, cio� insegnamenti di Scribi, Farisei e Sacerdoti, desunti dal Decalogo e proposti al popolo come via d'attuazione e di comprensione del loro cammino, secondo l'insegnamento di Dio. La Tor�, quindi, presenta due dimensioni: la tradizione scritta e poi dal 440 a.C. in poi quella orale, dove Scribi, Farisei, Sacerdoti riflettendo sul Decalogo hanno tratto delle norme e delle indicazioni per il popolo e queste norme erano molto pi� pesanti e gravosi della tradizione scritta, cio� della Tor�, e siccome queste norme venivano dai sacerdoti, avevano un peso morale molto pi� forte e condizionante. Ne N.T. Ges� spesso si scaglier� contro questa interpretazione della Legga fatta da Scribi e Farisei, soprattutto quella che riguardava la purificazione solo esteriore, trascurando il comandamento dell'amore.

Ecco allora alcune affermazioni importanti di Ges�:

1.     Comandamento di Dio e tradizioni degli uomini devono essere tenuti distinti (vv. 8-9). Non sono sullo stesso piano, perenne il primo e provvisorie le seconde. E le tradizioni (anche se nascono come sforzo di interpretazione del comandamento: addirittura come tentativo di circondarlo di venerazione) non devono essere tali da nascondere il comandamento stesso, tali da distrarci dall'essenziale.

2.     Una seconda affermazione: Ges� rifiuta la distinzione giudaica fra puro e impuro, fra una sfera religiosa, separata, in cui Dio � presente e una sfera ordinaria, quotidiana, in cui Dio � assente. Non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio altrove: il peccato lo portiamo dentro di noi. Secondo i Farisei andando al mercato c'era il pericolo di una impurit� a motivo del probabile contatto con peccatori e pagani. L'affermazione di Ges�, alla luce di questo caso, acquista un ulteriore significato: non solo l'abolizione fra il sacro e il profano, ma anche l'abolizione di ogni divisione fra gli uomini, fra puri e impuri.

3.     Infine l'assurda tradizione del "Qorb�n", cio� l'uso tradizionale di sostituire con un "offerta votiva" (questo � il significato originale di "korb�n") al tempio quanto era da riservare per il sostentamento dei genitori anziani e incapaci. Questo, quindi, permetteva ai figli di disobbligarsi con coscienza tranquilla dal dovere di mantenere i genitori impediti. Ges� svela l'ipocrisia di questa tradizione che, sotto le apparenze legali e sacrali, risulta una vera e propria violazione del decalogo (Es. 20,12) e della parola di Dio e delle sue genuine richieste (Es. 21,17).

"I farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme": come in 3,22 la menzione di Gerusalemme mostra che gli scribi rappresentavano l'atteggiamento ufficiale di influenti capi giudaici nei confronti di Ges�.

"Mangiavano il pane con le mani impure": � oggetto di discussione se l'abluzione delle mani prima di mangiare fosse un obbligo per tutti i giudei o soltanto per i sacerdoti, � possibile che fosse una prassi tra i giudei pii, farisaici o meno. In ogni caso, qui ci si attendeva che i discepoli di Ges� seguissero la prassi, e "alcuni" di loro lo ignoravano.

"Senza essersi lavate le mani": diversamente da Mt. 15,1 ss. scritto per cristiani giudei, Marco aggiunge una lunga spiegazione degli usi in questione per l'utilit� dei suoi lettori pagani.

"Le tradizioni degli antichi": un termine rabbinico per quell'insieme di leggi non scritte che i farisei consideravano vincolanti esattamente come la Tor�.

"Mos� dice": Ges� cita il quarto comandamento, mostrando che egli accetta la forza vincolante della legge mosaica scritta.

"Non vi � niente fuori dall'uomo": il parallelismo antitetico di questo detto � una caratteristica della dizione semitica ed � una prova dell'autenticit� di questo detto di Ges�. Le sue implicazioni furono capite soltanto quando la Chiesa dovette affrontare il problema se i gentili dovessero o meno osservare le regole dietetiche giudaiche (At. 10,14 ss.; 15, 28-29, Gal. 2, 11-17).

"Annullate la parola di Dio": la condanna di queste pratiche tradizionalmente accettate � una contestazione senza mezze misure.

"Dichiarando cos� puri tutti i cibi": questo � un commento redazionale dell'evangelista che pone in rilievo le implicazioni delle parole di Ges�.

"Quello che esce dall'uomo": pensieri e parole che procedono dalla sua parte pi� intima.

 

 

III. VIAGGI DI GESU' FUORI DELLA GALILEA

 

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LA DONNA SIROFENICIA (7, 24-30)

Ges� si trova nella regione fenicia, territorio pagano, confinante con la Galilea. L� incontra una pagana che implora la guarigione per sua figlia. Ges� reagisce da ebreo, definendo gli israeliti "figli" e i pagani "cagnolini", secondo il linguaggio e la mentalit� del tempo. Ma, di fronte alla purezza di quella madre, compie il miracolo, mostrando indirettamente che non sono le frontiere socio-politiche e culturali a separare da Cristo e dal regno di Dio.

Questa pericope, pertanto, continua il tema universalistico della sezione dei pani, mostrando che Ges� � il Salvatore non solo dei giudei ma anche dei gentili.

"Una pagana, una sirofenicia di origine": essa � in contrasto con il giudeo Giairo he era un "capo della sinagoga". Mc. accentua pi� di Mt. il fatto che ella sia una pagana sia per religione che per nascita.

"Non � bene prendere il pane...": la connessione di questa pericope con la sezione dei pani � mantenuta mediante la menzione del pane.

"I figli": sono i giudei (Es. 4,22; 14,1; Is. 1,2; Os. 1,10, Rm. 9,4). I "gentili" erano comunemente chiamati "cani", ma Ges� usa il diminutivo pi� dolce "cagnolini".

"Va', per questa parola, il demonio � uscito...": nessun altro miracolo � narrato da Mc. in modo cos� limpido; come in altre guarigioni di Ges� a favore dei gentili (Mt. 8, 5-13; Lc. 7, 1-10; Gv. 4, 46-54) anche questo avviene a distanza.

 

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GUARIGIONE DI UN SORDOMUTO (7, 31-37)

Il racconto di questo miracolo � esclusivo di Marco, le cui caratteristiche redazionali sono evidenti nei vv. 31 e 36. La pericope dovrebbe essere letta assieme alla sua corrispondente in 8, 22-26.

"Tiro, Sidone, la Decapoli": questo percorso geografico, difficile da accettare come valore nominale, serve pi� che altro a collegare questo episodio con la pericope precedente e a fornire un contesto pagano per il successivo miracolo (8, 1-9).

"Mise le proprie dita... con la saliva...": i gesti di Ges� sono "sacramentali" in quanto operano ci� che simboleggiano: lo schiudersi delle orecchie dell'uomo e lo scioglimento della sua lingua.

"Effat�": Mc. conserva il termine aramaico ('epp tah) e lo traduce "apriti".

"Erano presi da grande ammirazione": in nessun altro passo Mc. sottolinea cos� fortemente la reazione della folla, un indice del suo significato straordinario.

"Fa udire i sordi e parlare i muti": questa allusione a Is. 35, 5-6 pone in rilievo la lezione teologica della guarigione: l'�ra della salvezza messianica, annunciata da Isaia, � arrivata con Ges�.

 

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MOLTIPLICAZIONE DEI PANI PER I 4.000 (8, 1-9)

Questa pericope molto probabilmente � una seconda versione dello stesso miracolo narrato in 6, 34-44. Dal punto di vista letterario, questa seconda narrazione, prefigura l'eucarestia cristiana, questa volta come cibo per i pagani, mentre la prima era un segno per i giudei.

"Sento compassione di questa folla": lo stesso motivo di compassione che si riscontra in 6,34; ma mentre l� la piet� di Ges� � teologica ("essi sono come pecore senza pastore"), qui � perch� "sono gi� tre giorni che stanno con me e non hanno da mangiare".

"Alcuni di loro vengono da lontano": in 6,36 erano vicini ai villaggi da andare a comprarsi del cibo. Qui l'accento posto sulla distanza � teologico. L'espressione di Mc. pone in risalto che l'azione di Ges� � rivolta in modo speciale ai pagani presenti tra la folla.

"Come si potrebbe sfamarli?": l'interrogativo dei discepoli � inspiegabile se avevano gi� assistito a una prima moltiplicazione dei pani.

"Prese i sette pani..": gli elementi essenziali di questo versetto si ritrovano nel racconto dell'istituzione dell'eucarestia in 1 Cor. 11,24.

"Li distribuirono alla folla": un'allusione alla primitiva prassi eucaristica nella quale i diaconi distribuivano gli elementi ricevuti dal vescovo che presiedeva.

"Alcuni pesciolini": questa menzione appare come una riflessione tardiva dato che tutto il rilievo era dato all'elemento eucaristico del pane.

"Sette ceste di avanzi": nella prima si parla di cinque pani, due pesci, dodici ceste.

"Erano circa 4.000": diversamente da 6,44 qui non viene specificato che furono contati soltanto gli uomini.

"E li conged�": � simile al liturgico "Ite missa est" al termine di un servizio liturgico.

 

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RIFIUTO DI UN SEGNO DAL CIELO (8, 10-13)

I farisei chiedono a Ges� un "segno dal cielo" per metterlo alla prova. A loro non interessano i segni: interessa trovare un modo per smentire Ges� di fronte alle folle. La tradizione ha conservato il ricordo di due tipi di risposta data da Ges� a costoro: la prima, ed � quella del nostro brano, sembra rifiutare ogni segno; la seconda allude al segno di Giona (Lc. 11, 29-30). In verit� le due risposte si equivalgono: il vero segno � Ges� stesso, la sua predicazione e la sua attivit�, il suo pressante invito alla conversione (come avvenne, appunto, nel caso di Giona profeta, il quale port� ai Niniviti il messaggio di Dio ed essi gli credettero senza la pretesa di segni dall'alto).

La nostra sorpresa � che la domanda di "segni dal cielo" avvenga nel contesto di una sezione caratterizzata dai due miracoli dei pani, certo due miracoli fra i pi� spettacolari del vangelo.

La lezione � evidente: secondo Mc. la richiesta di altri segni non si giustifica, � una scusa. L'uomo � cieco di fronte ai segni che Dio decide di offrirgli e trova scuse pretendendone altri. Il fariseo va in cerca di segni propri, progettati in base alla propria immaginazione e non s'accorge dei molti segni che Dio ha di sua iniziativa seminato lungo la strada.

 

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LA CECITA' DEI DISCEPOLI (8, 14-21)

In questa pericope Mc. collega assieme un detto riguardante il lievito dei farisei e di Erode con un severo rimprovero ai discepoli per la loro mancanza di comprensione del significato della moltiplicazione dei pani.

"Guardatevi dal lievito dei farisei e di Erode": questo detto isolato di Ges� viene arbitrariamente associato con quanto precede a motivo dell'associazione del lievito con il pane. Esso interrompe la naturale sequenza dei vv. 14 e 16; il lievito non ha niente a che fare con il resto della pericope. Lc. 12,1 ha collocato il detto in un contesto molto pi� logico, quello della disputa con i farisei.

"Noi non abbiamo pane": la preoccupazione per il cibo materiale impediva loro di vedere che Ges�, che da poco aveva nutrito le folle operando un miracolo, � il Messia in grado di nutrirli con il pane della vita.

La reazione di Ges� si concretizza in sette domande nelle quali egli rimprovera i discepoli per non essere stati capaci di percepire il significato della miracolosa moltiplicazione, e cerca di aiutarli a comprenderlo.

"Perch� discutete?": Ges� coglie verbalmente il pensiero dei discepoli in 8,16: ci� che indica la loro cecit� mentale, � la loro lamentela per la mancanza di pane, pi� che la loro incapacit� a comprendere il detto concernente il lievito.

"Avete occhi e non vedete?": i miracoli dei pani in Mc. avevano lo scopo di rivelare ai discepoli il "mistero del regno di Dio".

"Non vi ricordate?": nell'A.T. il ricordo � uno dei veicoli principali della rivelazione di Dio ed � un elemento essenziale del Patto. In Dt. 4, 32-40 gli israeliti sono invitati a ricordare le passate azioni divine di misericordia come la base della loro attuale fedelt� al Patto. Questa domanda di Ges� � un invito a fare un'analoga riflessione sui suoi due miracoli del pane perch� in questo modo essi potranno capire chi egli sia.

"Quando ho spezzato il pane...": qui Mc. rievoca entrambi i miracoli dei pani e in entrambi i casi viene accentuato il simbolismo eucaristico mediante il riferimento ad essi come a uno spezzare il pane.

"Non capite ancora?": la domanda finale di Ges� ricapitola il nocciolo di tutto questo episodio: esso ha lo scopo di far scaturire dai discepoli il riconoscimento di Ges� come Messia in base ai due miracoli del pane.

Dopo queste considerazioni possiamo procedere a determinare il significato del detto sul lievito.

Mt. 16,12 interpreta il lievito dei farisei come "la dottrina dei farisei e dei sadducei" e Lc. 12,1 come la loro "ipocrisia". Alla base di entrambe le interpretazioni c'� il concetto giudaico di lievito in quanto simbolo di una forza corruttrice (1 Cor. 5,6.7.8; Gal. 5,9). Originariamente il detto deve essere stato riferito al loro atteggiamento ostile nei confronti di Ges� e del suo messaggio. Questo lievito non pu� essere, pertanto, che il loro concetto nazionalistico e politico dell'atteso Messia, concetto che non era estraneo ai discepoli e che nel presente contesto impedisce loro di percepire la vera natura della messianicit� di Ges�.

Nel contesto, quindi, il detto di Ges� sul lievito �, sia un forte avvertimento ai discepoli di guardarsi dalle speranze messianiche corrosive, sia un invito a percepire il carattere reale della sua messianicit�.

Cos� l'intera pericope � una finale appropriata alla sezione dei pani, e porta naturalmente al riconoscimento dei discepoli di Ges� come Messia in 8, 27-30.

 

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IL CIECO DI BETSAIDA (8, 22-26)

Con la narrazione di questo miracolo termina il secondo ciclo della sezione dei pani cos� come la guarigione del sordomuto (7, 31-37) termina il primo ciclo. Ambedue i miracolo sono riportati soltanto da Marco e mostrano una sorprendente somiglianza nella loro struttura e nel loro vocabolario. Si riscontrano affinit� anche per quanto riguarda la pericope immediatamente seguente (8, 27-30) e la guarigione del cieco di Gerico (10, 46-52).

Il parallelismo con 8, 27-30 consiste principalmente nelle similarit� tra la graduale restituzione della vista all'uomo e il graduale riconoscimento di Ges� come Messia da parte dei suoi discepoli. In entrambi i casi Ges� ripete i suoi gesti o la sua domanda prima che si operi il desiderato effetto. Inoltre l'acclamazione che segu� la guarigione del sordomuto (7,37) non c'� in questa guarigione parallela, ma viene dopo, nella confessione di Pietro (8,29). Cos� questa guarigione � un gesto profetico di Ges� e simboleggia lo schiudersi degli occhi dei suoi discepoli alla sua messianicit�.

C'� pure una similitudine con la guarigione di Bartimeo in 10, 46-52 in quanto:

1.     entrambi i miracoli segnano il termine di sezioni che contengono insegnamenti concernenti la messianicit� di Ges� e,

2.     il riconoscimento di Ges� come Messia (8,30), simboleggiato dalla prima guarigione, ha il suo parallelo nel fatto che Bartimeo proclama Ges� Figlio di Davide.

"Giungono a Betsaida": questa annotazione � parallela all'introduzione della guarigione del sordomuto (7,31). La guarigione avviene al di fuori della Galilea, nella tetrarchia di Filippo, cos� come la guarigione del sordomuto avviene nella Transgiordania, nel distretto della Decapoli. Il riferimento alla popolosa Betsaida come a un "villaggio" (8,23) rende probabile l'opinione che la localizzazione di questa guarigione sia un commento redazionale personale di Mc.

"Gli presentano un cieco e lo pregano di toccarlo": c'� qui un forte parallelismo con 7,32 eccettuata una trasposizione dei verbi "toccare" e "imporre le sue mani".

"Preso il cieco e lo condusse fuori del villaggio": anche qui c'� un'evidente somiglianza con 7,32: Ges� isola l'ammalato a una certa distanza, e usa la saliva e l'imposizione delle mani; la condizione dell'uomo non viene attribuita al demonio e non si fa alcuna menzione della fede.

"Vedi qualcosa?": questa � l'unica guarigione nei vangeli che avviene gradatamente, in due stadi, altrove le parole di Ges� operano una guarigione istantanea.

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CONFESSIONE DI PIETRO (8, 27-30)

Questa pericope rappresenta una svolta decisiva nel vangelo di Mc. perch� in essa l'auto-rivelazione di Ges� raggiunge il suo punto culminante nel fatto che i suoi discepoli lo riconoscono per la prima volta come Messia.. Essa introduce anche il tema del Messia sofferente, tema che verr� poi sviluppato nei capitoli successivi. La confessione di Pietro e la prima predizione della passione formano in Mc. una logica e strutturale unit� che non � rotta, come in Mt. 16, 17-19 dall'interpolazione della promessa a Pietro.

Questa sezione appartiene realmente sia alla parte precedente che a quella seguente del vangelo di Mc., perch� essa � il punto culminante dei capitoli 1-8 e anche il passaggio alla nuova sezione.

L'episodio di Cesarea di Filippo risponde all'interrogativo che Mc. sta inseguendo fin dall'inizio - "chi � Ges�?" - e qui la risposta � data con chiarezza: Ges� � il Figlio dell'uomo incamminato verso la Croce. Da questo momento in poi il tema della Croce �, in un certo senso, l'unico tema trattato, colto da varie angolature e mostrato nelle sue diverse conseguenze.

"Chi dice la gente che io sia?": il termine "uomini" ("anthropoi") denota chiaramente coloro che sono fuori della cerchia di Ges� (1,17).

"Voi chi dite che io sia?": qui i dodici ("voi") sono messi in contrapposizione agli "uomini" di 8,27. Essi sono i "voi" ai quali fu confidato il segreto del Regno di Dio e sono contrapposti a "quelli che sono fuori" ai quali tutto si presenta come un enigma (4,11).

"Tu sei il Cristo": Pietro � il primo essere umano che riconosce, o per lo meno esprime chiaramente, che Ges� � l'atteso liberatore. In realt�, il suo � un atto di fede nella messianicit�, non ancora nella divinit� di Ges�.

"E impose loro di non parlare di lui a nessuno": per la prima volta la proibizione di parlare apertamente � esplicitamente rapportata alla sua stessa persona. Di fatto Ges� accetta la confessione messianica di Pietro, ma soltanto con la qualificazione importante fatta in 8,31 (la croce, la sofferenza, il rifiuto). Ges�, quindi, accetta il titolo usato da Pietro, ma vi aggiunge immediatamente un'importante correzione.

 

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PRIMO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (8, 31-33)

A questo primo annuncio della Passione, ne seguiranno altri due: uno subito dopo la Trasfigurazione e la guarigione del ragazzo epilettico (9,31), l'altro nel contesto dell'ultima salita a Gerusalemme (10, 32-34).

Come al solito ci troviamo di fronte a un dato che rivela, da una parte, la consapevolezza di Ges� e, dall'altra, la teologia di Marco.

Ges� � consapevole della sorte che lo attende: egli sa di andare incontro a una morte violenta, e sa che essa � un fatto salvifico, rientrante nel piano di Dio, non semplicemente la conclusione di una storia di contrasti e di opposizioni.

Per cogliere la teologia di Mc. dobbiamo fare tre osservazioni:

1.     Da una predizione all'altra si nota una specie di crescendo: l'annunzio della Passione si fa pi� complesso, i fatti e i personaggi che entrano in gioco pi� precisi. Con questo artificio letterario Mc. vuole far sentire al lettore l'approssimarsi continuo della Passione e mostrare che la consapevolezza di Ges� si fa sempre pi� lucida.

2.     Secondariamente, si osservi come l'annuncio della passione � sempre collegato all'annuncio della Risurrezione. Il mistero di Ges� presenta sempre due aspetti, e quello definitivo � la Risurrezione, non la Passione. Mc. non vuole solo dirci che la Passione sar� seguita dalla Risurrezione, ma che la salvezza passa attraverso la Croce.

3.     Infine, � sorprendente come a ogni predizione della Passione faccia seguito una incomprensione dei discepoli: quella di Pietro, quella dei discepoli che discutono intorno al pi� grande, quella di Giovanni e Giacomo che si contendono il primo posto. La solitudine di Ges� � totale: non solo le folle, ma anche i discepoli non capiscono.

"Cominci� a spiegare loro": la parole di Ges� si presentano come un commento alla confessione di Pietro; costituiscono un'istruzione sul senso in cui egli deve essere considerato un Unto, un Messia. Esse vengono logicamente dopo la sua proibizione di non dire di lui a nessuno. Non � che gli altri non sarebbero in grado di capire qualora i discepoli dicessero loro che Ges� � il Messia, � che gli stessi discepoli non hanno ancora afferrato l'elemento essenziale dell'annuncio, e cio�, che il Messia � il Figlio dell'uomo che deve soffrire e morire.

"Che il Figlio dell'uomo": fatta eccezione per i vv. secondari 2.10.28 questa � la prima volta che si incontra il titolo Figlio dell'uomo. D'ora innanzi in Mc. il titolo sar� usato in connessione o con la gloriosa venuta del Figlio dell'uomo (8,38; 13,26; 14,62) o con la santit� della vita di Ges� (10,45) o con la sua passione e morte (9, 9-31; 10,33; 12,31; 14,21), e cio�, in istruzioni impartite ai suoi discepoli sulla natura della sua messianicit�. Ges� pertanto trasforma la nozione popolare del Figlio dell'uomo visto come il glorioso giudice escatologico associandola alla figura del Servo sofferente di Jahwh� (Is. 52.13-53.12).

"Pietro si mise a rimproverar