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Primo dopoguerra - Italia

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Una ricerca sulla situazione dell'Italia nel primo dopoguerra, prima dell'avvento di Mussolini.

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L'Italia nel dopoguerra
In Italia, il dopoguerra fu caratterizzato da una profonda crisi che ebbe decisive conseguenze sulla vita futura dello Stato. Nel conflitto il Paese aveva subito pesanti perdite umane (più di 600.000 morti) e gravi danni materiali. La situazione dell’economia era allarmante: la lira si era fortemente svalutata, il costo della vita era aumentato in modo vertiginoso e l’apparato produttivo non era in grado di assorbire la manodopera di nuovo a disposizione con il ritorno dei soldati dal fronte. Vi era poi il grosso problema della riconversione dell’industria bellica (l’unica che aveva conosciuto vantaggi nel periodo 1915 – 1918) a produzioni adeguate a tempi di pace.
In questa difficile situazione si inserivano anche forti tensioni di tipo sociale: il periodo 1919 – 1920 (il cosiddetto biennio rosso) fu infatti caratterizzato da una lunga serie di agitazioni e scioperi. I lavoratori dell’industria (coordinati dalle organizzazioni sindacali), che si erano mobilitati chiedendo un miglioramento globale delle loro condizioni, ottennero importanti conquiste, come la diminuzione dell’orario settimanale a paghe invariate. Entrarono in agitazione anche i contadini, che chiedevano le terre promesse dal governo durante la guerra e che, nel Meridione, usarono come strumento di lotta l’occupazione delle terre dei latifondi. Il momento culminante di questo periodo si ebbe però senza dubbio nel settembre 1920, quando in tutta Italia gli operai misero in atto l’occupazione delle fabbriche.
Era questa la risposta dei sindacati alla “serrata” imposta dagli industriali di fronte alle rivendicazioni salariali e a uno sciopero indetto dai lavoratori e, nel suo complesso, un vero e proprio atto di sfida nei confronti del padronato.
L’agitazione, grazie anche alla posizione tollerante assunta da Giolitti, ritornato in quel periodo alla guida del governo, si concluse con un lieve aumento salariale per gli operai ma con una loro sostanziale sconfitta. La vicenda finì, infatti, per indebolirne il movimento: da un lato perché era emersa l’impossibilità, da parte dei lavoratori, di dar vita a una rivoluzione sul modello sovietico; dall’altro perché gli industriali avevano assunto un atteggiamento di chiusura che col passare del tempo si sarebbe fatto sempre più rigido.
D’altro canto anche i ceti medi (artigiani, commercianti, impiegati…) mostravano chiari segni di inquietudine: preoccupati dalle agitazioni dei “rossi”, impoveriti dal crescere dell’inflazione (che ne aveva eroso i risparmi), costretti, dopo aver occupato posti di rilievo nell’esercito, al grigiore della vita quotidiana, avevano accumulato una forte dose di frustrazione e rancore verso lo Stato. Essi divennero pertanto una facile esca per le proteste dei nazionalisti, rivolte in particolare contro la cosiddetta vittoria mutilata, cioè i trattati di pace che avevano negato all’Italia la Dalmazia e Fiume. Queste proteste erano culminate nell’occupazione della stessa Fiume (settembre 1919) da parte di volontari guidati da Gabriele d’annunzio, scrittore e uomo politico nazionalista che si era distinto anche come uno dei maggiori protagonisti dell’interventismo. Con il Trattato di Rapallo (12 settembre 1920), firmato da Giolitti con la Iugoslavia, Fiume fu poi dichiarata “città libera”, e l’esercito italiano allontanò con poca fatica le truppe dannunziane. Si era trattato tuttavia di un segnale allarmante per il governo, dimostratosi incapace di rispondere in modo adeguato a un autentico atto di forza come quello compiuto da D’annunzio.
Nel difficile contesto del dopoguerra italiano anche il sistema politico mostrò segni di fragilità. Ciò che emerse in modo evidente fu soprattutto l’inadeguatezza della vecchia classe dirigente di stampo liberale ad affrontare la nuova situazione, determinata dalla progressiva crescita dei partiti di massa. Fra questi si pose subito in evidenza un nuovo organismo, il Partito popolare italiano, nato nel 1919 e guidato da don Luigi Sturzo. I popolari si proponevano come partito di centro, di ispirazione cattolica, moderato ma con importanti agganci con il sindacalismo “bianco” diffuso soprattutto nelle campagne. Essi si ponevano dunque come alternativa agli stessi liberali oltre che, naturalmente, ai socialisti. Questi ultimi, che pure avevano conosciuto una forte crescita di consensi, erano indeboliti dal contrasto interno fra la corrente riformista (moderata) e i massimalisti, che continuavano invece a sostenere l’obiettivo della rivoluzione. Questo contrasto avrebbe portato, nel 1921, alla scissione dell’ala di estrema sinistra e alla nascita del Partito comunista italiano. La più chiara testimonianza dei cambiamenti in atto nella vita politica italiana fu comunque data dalle elezioni del 1919, svoltesi secondo il sistema “proporzionale”. I socialisti ottennero il 32,4% dei voti e i popolari il 20,6% complessivamente più della metà dei seggi della Camera dei Deputati. Ciò significava una difficoltà sempre maggior nel creare governi solidi. L’unica coalizione possibile era infatti quella fra i liberali e i popolari, poiché i socialisti rifiutavano qualsiasi forma di collaborazione con i partiti “borghesi”. In queste stesse elezioni comparve per la prima volta un’organizzazione, i Fasci italiani di combattimento, fondati da Benito Mussolini nell’aprile del 1919, che assunse ben presto caratteristiche fortemente antidemocratiche.
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punk_winnie scrive: cerkietto!

"ora ke i cerkiettivanno tanto di moda..soprattutto quelli grossi anni '60..cosa c'è di meglio ke fare i bigliettini e..." Continua a leggere

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