La fondazione del metodo scientifico moderno
Grazie a queste scoperte il copernicanesimo costituì per Galileo una certezza. Egli si impegnò altrettanto sul problema dei moti terrestri: con i suoi ingegnosi esperimenti e le sue eleganti dimostrazioni, fornì un nuovo solido statuto alla meccanica e avviò la fisica moderna su binari ormai chiaramente delineati. L’ambito della fisica terrestre, tuttavia, restava un campo per specialisti, mentre le questioni legate all’affermazione del copernicanesimo coinvolgevano aspetti culturali e religiosi della massima importanza. Com’è noto, le resistenze alla diffusione di questa teoria provenivano soprattutto dagli ambienti ecclesiastici, per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, la fisica e l’intera filosofia aristotelica erano divenute, dopo la grande sintesi operata da Tommaso d’Aquino nel secolo XIII, i fondamenti dell’accordo tra fede e ragione attorno ai quali si era imperniato gran parte del pensiero medievale. I termini di questo accordo erano stati ribaditi, a metà del secolo XVI, dal Concilio di Trento. Inoltre, l’idea che la Terra si muovesse attorno al Sole veniva considerata in contraddizione con alcune pagine della Bibbia. La questione andava ben oltre i confini della filologia biblica, perché si ricollegava all’aspra lotta dei teologi cattolici contro il principio luterano del libero esame del testo sacro, cioè contro l’affermazione che ogni fedele è chiamato a interpretare liberamente la parola di Dio. Molti ambienti ecclesiastici, in altre parole, temevano che la rivendicazione galileiana dell’autonomia della scienza dalle verità rivelate e dai testi sacri potesse preludere a una critica globale del magistero della Chiesa.

L’autonomia della scienza dalla fede
Galilei ribadì più volte la sua sincera convinzione della indiscutibilità dell’insegnamento morale della Chiesa, ma senza esito. Del resto, la sua generosa battaglia contro le resistenze al copernicanesimo era destinata in partenza alla sconfitta: proprio per la vastità delle implicazioni sottese, infatti, era impossibile che la Chiesa accettasse la proposta galileiana di distinguere nella Bibbia le affermazioni relative alla fede e alla morale – da non mettere in discussione – da quelle riguardanti il funzionamento del mondo fisico, da sottoporre al vaglio della ragione e delle conoscenze acquisite con l’osservazione scientifica. Solo in seguito al processo del 1633 lo scienziato pisano si arrenderà all’evidenza che i tempi non erano ancora maturi perché la Chiesa accogliesse il principio dell’autonomia reciproca tra fede e scienza.
Il tratto fondamentale del metodo scientifico galileiano è la traduzione sistematica dei dati osservativi in un rigoroso linguaggio matematico. Si tratta di quello che molti studiosi indicano come «platonismo» o «pitagorismo» galileiano, cioè la convinzione che la matematica non costituisca solo un linguaggio prezioso, per sintesi e rigore, nel rendere le caratteristiche costanti del mondo naturale, ma esprima la struttura profonda, lo scheletro essenziale della realtà. A differenza dei primi esponenti della rivoluzione scientifica (ad esempio l’inglese Francis Bacon), Galilei è ormai pienamente consapevole che il metodo della nuova scienza si fonda sul linguaggio matematico. I numeri e le figure geometriche costituiscono l’alfabeto di base di quello che Galilei stesso definisce il «gran libro della natura», che, nell’indagine delle sue leggi, non ammette il ricorso alla pretesa autorità di altri libri, compresi quelli sacri.

Rigore espositivo ed efficacia comunicativa
Va poi sottolineato il fatto che l’opera galileiana si caratterizza per una straordinaria capacità di coniugare rigore espositivo ed efficacia comunicativa. Alternando le lingue – il latino dei trattati destinati al mondo accademico e il volgare dei dibattiti, delle polemiche e dei testi destinati a un più ampio pubblico colto – nonché le forme letterarie (trattatello, epistola, dialogo), Galilei testimonia la volontà di diffondere il nuovo verbo scientifico in modo sistematico e la capacità di sintonizzarsi con i linguaggi, le abitudini culturali e gli stili mentali dei suoi interlocutori. Pur consapevole, come afferma nel Saggiatore, della differenza tra la lingua della scienza e gli stilemi retorici, Galilei dimostra di sapersi servire di entrambi, riuscendo in molti casi a forgiarsi (soprattutto nell’ambito del volgare) uno strumento originale rispetto ai modelli che la tradizione culturale italiana gli offriva. La nuova prosa scientifica che Galilei lascia – non ultima fra le sue preziose eredità – potrà affermarsi solo in modo rapsodico e tra molte difficoltà nel corso dei secoli XVII e XVIII, ma rimarrà comunque un modello a cui gli scienziati e i letterati non mancheranno di guardare.

Tratto da Moduli di letteratura italiana ed europea,
di A. Dendi, E. Severina, A. Aretini
Carlo Signorelli Editore, Milano

Dialogo sopra i due massimi sistemi

 

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