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Una finestra sull'Universo

  • Pronta ad esplodere

    Le supernovae di tipo Ia rappresentano ancora un mistero, in quanto nessuno può predire quando e dove queste immani esplosioni stellari possono verificarsi. Ma, recentemente, l’attenzione degli astronomi si è rivolta verso uno strano oggetto appartenente ad un sistema doppio, una nana bianca “vampiro” denominata V445 Puppis, che è stata soggetta ad un’esplosione di tipo “nova” dopo aver “fagocitato” nel 2000 un “boccone” di materia della stella compagna. Adesso, V445 Puppis potrebbe essere il primo caso di un oggetto scoperto prima della sua esplosione come supernova di tipo Ia, ma non è ancora chiaro se alla fine ciò avverrà oppure l’attuale fase parossistica con una eiezione di una grande quantità di materia impedirà la violentissima fine di questa stella, anche se esistono fondati che ciò avvenga.

     

     

    Sequenza di immagini dell’inviluppo di gas in espansione che circonda V445 Puppis dopo l’esplosione di nova registrata nel 2000. Le immagini sono state riprese dal ‘Very Large Telescope’ (VLT) da 8 metri di diametro dell’ESO (Cerro Paranal, Cile).

     

     

    Si tratta del primo caso finora conosciuto di una nova che nello spettro non mostra tracce di idrogeno. Ciò rappresenta un’evidenza critica, in quanto le supernovae di tipo Ia sono caratterizzate dall’assenza di questo elemento.

    V445 Puppis si trova a circa 25.000 anni luce da noi ed ha una luminosità intrinseca pari a 10.000 volte quella del Sole. Ciò implica che la nana bianca vampiro di questo sistema ha una massa molto elevata prossima al limite fatale, oltre il quale può verificarsi l’esplosione, un limite che molto probabilmente verrà raggiunto in tempi relativamente brevi, in quanto la stella compagna continua a travasare materia sulla nana bianca ad un tasso molto elevato.

    Uno dei maggiori problemi della moderna astrofisica è il fatto che ancora non conosciamo esattamente quali sono i sistemi stellari la cui esplosione da origine alle supernovae di tipo Ia. Si tratta di un argomento di grande importanza nella cosmologia poiché queste supernovae molto luminose sono utilizzate come candele campione per misurare le distanze degli oggetti presenti nell’Universo lontano ed è proprio grazie ad esse che si è potuto accertare che l’espansione dell’Universo è in accelerazione, spinto dall’ancora misteriosa “energia oscura”.

    L’ipotesi più accreditata che spiega l’origine delle supernovae Ia è quella secondo cui in un sistema doppio, formato da una nana bianca e da un stella gigante, quest’ultima trasferisce ingenti quantità di materia sull’oggetto compatto facendo aumentare la sua massa fino a fargli superare il limite oltre il quale avviene l’esplosione. Nessuno finora ha però osservato in diretta questa fase critica e V445 Puppis potrebbe essere il primo caso.

  • Nane bianche particolari

    La fine di una stella dipende dalla sua massa. Le stelle molto massicce terminano la loro vita in una immane esplosione di supernova, nel corso della quale per un periodo di qualche settimana viene emessa una quantità di energia paragonabile a quella prodotta dalle stelle di un’intera galassia. A seguito di questo fenomeno, a secondo della massa dal collasso delle regioni centrali della stella, si forma un buco nero o una stella di neutroni. Stelle più piccole, come ad esempio il nostro Sole, non subiscono una fine così violenta, ma si trasformano in oggetti molto densi, denominati nane bianche, in cui la maggior parte della massa originaria della stelle è racchiusa in una sfera di diametro analogo a quello della Terra, e costituiti per lo più da carbonio e in minor misura ossigeno. In questi oggetti esotici  non hanno più luogo le reazioni di fusione termonucleare, per cui inizia un lento e inarrestabile raffreddamento.

     

     

    Osservazioni spettroscopiche della stella azzurra indicata dalla freccia e di un altro oggetto simile hanno permesso di scoprire una classe di nane bianche finora sconosciuta.

     

     

    Adesso, un gruppo di astronomi delle Università di Warwick, nel Regno Unito, e di Kiel, in Germania, grazie all'analisi di un database astronomico dello Sloan Digital Sky Survey (SDSS), ha scoperto due nane bianche con una notevole abbondanza di ossigeno nelle loro atmosfere.

    Battezzati, rispettivamente, con le sigle SDSS 0922+2928 e SDSS 1102+2054, i due oggetti distano dalla Terra circa 400 e 220 anni luce e sono ciò che resta di stelle abbastanza massicce arrivate al termine del loro ciclo evolutivo, che hanno cioè esaurito tutto il loro combustibile nucleare.

    Secondo i modelli teorici, le stelle di massa compresa tra circa 7- e 10 volte quella del Sole, una volta consumato tutto il proprio idrogeno, l'elio e il carbonio, giungono al termine del proprio ciclo vitale in forma di nane bianche con nuclei molto ricchi di ossigeno e neon, oppure esplodono come supernove e collassano in stelle di neutroni.

    Queste così elevate abbondanze di ossigeno osservate nei due oggetti implicano che si tratta di nane bianche peculiari di un tipo finora sconosciuto, che probabilmente discendono dalle progenitrici più massicce di questa classe di stelle. Ulteriori osservazioni spettroscopiche, già programmate, potrebbero confermare o meno la presenza di neon in queste due stelle, un elemento che si forma a seguito della fusione termonucleare tra un nucleo di ossigeno ed uno di elio.

  • Sulla Luna c’è l'acqua

    Dopo oltre un mese dall’impatto di LCROSS (Lunar Crater Observation and Sensing Satellite) sul fondo del cratere Cabeus, nella regione polare meridionale del nostro satellite, i responsabili della missione hanno annunciato che i risultati delle complesse analisi spettroscopiche della nuvola di detriti provocata dalla collisione hanno confermato la presenza di una significativa quantità di acqua allo stato di ghiaccio.
    Il fondo dei crateri polari lunari, che, grazie alla loro posizione non vengono mai illuminati dalla luce del Sole, sono tra i luoghi più freddi del nostro sistema planetario. Recentemente, la sonda Lunar Recognition Orbiter (LRO) ha misurato l’eccezionale temperatura di -238 °C.

     

    Immagine della nube di detriti ripresa 20 secondi dopo l’impatto dello stadio del vettore ‘Centaur’ dalla telecamera della sonda LCROSS.


    Per accertare in maniera diretta l’esistenza di ghiaccio d’acqua sulla Luna, lo scorso 9 ottobre la NASA fece schiantare l’ultimo stadio del vettore Centaur, che aveva portato la sonda LCROSS sino all’orbita lunare, sul fondo del cratere Cabeus, una struttura da impatto di quasi 100 km di diametro in prossimità del polo sud. La violentissima collisione ha scavato un cratere di circa 20 metri di diametro sul fondo di Cabeus, sollevando una nube di detriti che è stata osservata dagli strumenti a bordo della sonda, che, dopo quattro minuti, ha seguito il destino del Centaur. Sebbene la quantità complessiva di acqua espulsa dall’impatto sia incerta, la sonda LCROSS ne rilevato più di 100 kg nella parte di pennacchio di detriti osservata direttamente.
    Il sospetto che esistesse ghiaccio d’acqua sul fondo dei crateri polari della Luna risale al 1994, quando la sonda Clementine con il suo radar rilevò degli echi provenienti da queste zone tipici della riflessione prodotta dal ghiaccio. Altre osservazioni effettuate nel 1998 e 1999 dalla sonda Lunar Prospector confermarono con altre tecniche la presenza di ghiaccio d’acqua. Infine, l'acqua sulla Luna, in quantità molto ridotte, è stata individuata recentemente anche dalla sonda indiana Chandrayaan-1. Si trattava comunque di misure indirette, adesso invece non esistono più dubbi sulla presenza di questo prezioso elemento.

     

    Spettro nel vicino infrarosso della nube di detriti sollevata dall’impatto, ottenuto dallo spettrografo di LCROSS, poco prima che anch’essa si schiantasse a poca distanza dal punto in cui ha impattato l’ultimo stadio del vettore ‘Centaur’. Le due aree gialle indicano le molto evidenti bande di assorbimento tipiche del ghiaccio d’acqua.


    Ma da dove arriva questo ghiaccio d’acqua? Le ipotesi sono due. Una possibile “sorgente” potrebbe essere l’impatto di nuclei cometari, che come è noto sono formati in gran parte da ghiaccio d’acqua, che, alle temperature presenti sul fondo dei crateri polari, può persistere per miliardi di anni. La seconda è quella secondo cui il ghiaccio d’acqua lunare potrebbe essere stato formato dai nuclei di idrogeno (protoni) che compongono il vento solare, che continuamente bombarda la superficie del nostro satellite. Questi protoni, combinandosi con l’ossigeno presente nelle rocce lunari, genera molecole di ossidrile (OH) e di acqua (H2O). Queste molecole con il tempo possono migrare sulla superficie della Luna per venire poi intrappolate sul fondo dei gelidi crateri presenti nelle sue regioni polari.
    Si tratta di un’importante scoperta che apre un nuovo capitolo nello studio e nella futura esplorazione umana del nostro satellite.

  • Risolto il mistero del litio mancante nel Sole

    Da circa 60 anni è noto che il Sole contiene una bassa abbondanza di litio, mentre altre stelle di tipo solare ne contengono quantità maggiori. Finora questa discrepanza non aveva trovato una spiegazione. Il litio è un elemento chimico (Li) con  numero atomico 3 ed è il più leggero degli elementi solidi.

    Adesso, un gruppo di astronomi europei, dopo un lungo e paziente lavoro di osservazione di stelle con caratteristiche simili a quelle del Sole, ha scoperto che la maggior parte delle stelle attorno a cui orbitano dei pianeti extrasolari possiede meno dell’1% del litio presente in quelle non dotate di pianeti.

    Questa scoperta fa luce non solo sulla scarsità di questo elemento nel Sole, ma fornisce un potente strumento per scoprire stelle attorno alle quali è presente un sistema planetario.

     

    Immagine artistica di un disco di materia circumstellare protoplanetario. Un recente studio dimostra che stelle attorno a cui orbitano dei pianeti, come nel caso del Sole, hanno un’abbondanza di litio molto inferiore a quella presente in stelle “solitarie”. Un potente strumento per la scoperta di esopianeti.

     

    Oggetto dello studio sono state circa 500 stelle, 70 delle quali dotate di pianeti. Ebbene, il risultato è stato che le stelle di tipo solare attorno a cui orbitano dei corpi planetari mostrano di aver distrutto il litio in maniera molto più efficace rispetto a quelle “solitarie”. Le stelle povere di litio devono possedere quindi un meccanismo molto efficiente nel distruggere questo elemento che hanno ereditato alla loro nascita. Utilizzando il grande campione di stelle che sono state osservate, è stato possibile dimostrare che la ragione di questa diminuzione nell’abbondanza di questo elemento leggero non è correlata ad alcuna proprietà intrinseca della stella, come ad esempio la sua età.

    A differenza di altri elementi meno pesanti del ferro, i nuclei di litio, berillio e boro non sono prodotti in quantità significative all’interno delle stelle. Riguardo al litio, il cui nucleo è formato da 3 protoni e 4 neutroni, si pensa che si sia originato in gran parte appena dopo il Big Bang, circa 13,7 miliardi di anni fa. La stragrande maggioranza  delle stelle dovrebbe quindi avere la stessa abbondanza di litio, a meno che questo elemento non sia stato distrutto da qualche processo particolare. Adesso, i risultati di questo studio, pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature del 12 novembre, mostrano che esiste una stretta correlazione tra la presenza di pianeti e la scarsa abbondanza di litio nella stella attorno a cui orbitano, anche se non è ancora chiaro quale possa essere il meccanismo fisico che è all’origine di ciò. Esistono molti modi per cui un pianeta può disturbare i moti della materia all’interno di una stella compagna, contribuendo forse alla redistribuzione dei vari elementi chimici che la compongono, e probabilmente alla conseguente distruzione del litio. E’ adesso compito dei teorici venire a capo di questo problema.

    Da oltre 10 anni si cercava di trovare una qualche caratteristica che distinguesse le stelle con pianeti da quelle senza, adesso è chiaro che l’abbondanza di litio è una di queste. Ciò faciliterà la scoperta di altri pianeti extrasolari.

  • Il cuore turbolento della Via Lattea

    Per celebrare l'Anno Internazionale dell'Astronomia 2009, la NASA ha reso pubbliche una serie di  eccezionali immagini delle regioni centrali della nostra Galassia, ottenute con i più grandi osservatori spaziali: Hubble Space Telescope, Spitzer Space Telescope e Chandra X-ray Observatory.


     

    Un trio di immagini delle regioni centrali della nostra Galassia ottenute dal telescopio spaziale infrarosso ‘Spitzer’ (in alto), il telescopio spaziale ‘Hubble’ (al centro) e dall’osservatorio spaziale per raggi X ‘Chandra’.

     

    In queste spettacolari immagini, le osservazioni effettuate nell’infrarosso e nello spettro X ci permettono di vedere attraverso le nubi di polvere oscura che affollano le regioni più interne della Via Lattea e rivelano l'intensa attività in prossimità del nucleo.

     

    La combinazione delle tre immagini precedenti mostra le regioni di attività del nucleo della Via lattea. Il giallo rappresenta le osservazioni di ‘Hubble’, rosso di ‘Spitzer’, ed il blu-violetto quelle di ‘Chandra’.

     

    Il centro galattico è localizzato dall'interno della regione bianca verso destra, fino al centro dell'immagine ed è chiamato Sagittarius A. L'intera immagine copre un'area di mezzo grado, grosso modo le stesse dimensioni angolari della Luna piena.
    Nell’immagine composita, il giallo rappresenta il vicino infrarosso delle osservazioni di Hubble, e mette in evidenza le regioni caratterizzate da una intensa emissione di energia, dove le stelle stanno nascendo oppure dove sono addensate in grandi ammassi stellari aperti di stelle giovani. Il rosso rappresenta le osservazioni del telescopio spaziale Spitzer: la radiazione ed il vento stellare delle stelle giovani riscalda nubi di polveri le quali mostrano complesse strutture dall’aspetto globulare oppure sotto forma di  lunghi e frastagliati filamenti. Il blu ed il viola rappresentano le osservazioni di Chandra ed indicano le emissioni prodotte dal gas riscaldato a milioni di gradi dalle esplosioni stellari e dai getti che fuoriescono dal buco nero supermassiccio che si trova nel centro galattico. La brillante bolla blu sul lato sinistro è l’intensa emissione generata da una stella doppia formata da una stella di neutroni e da un buco nero.
    Si tratta di una delle immagini più dettagliate dell’ancora misterioso centro galattico.

  • Dalla sonda Messenger novità su Mercurio

    Nel corso del suo terzo ed ultimo flyby su Mercurio, avvenuto lo scorso 29 settembre,  la sonda Messenger ci ha offerto una visione quasi completa della superficie del pianeta e fornito nuove conoscenze scientifiche su questo mondo relativamente sconosciuto.
    Nonostante un problema di funzionamento degli strumenti di bordo, prontamente risolto, la camera ad alta risoluzione e gli altri strumenti della sonda hanno svelato un altro 6% della superficie di Mercurio, una regione mai vista prima ad una distanza così ravvicinata. Adesso, disponiamo di immagini ad alta risoluzione di circa il 98% della superficie di questo pianeta.
    Le nuove immagini, nonostante le ridotte dimensioni della nuova area (una strisciata di circa 560 km della regione equatoriale) hanno riservato nuove sorprese. Tra  le interessanti morfologie superficiali riscontrate durante il terzo flyby c’è una regione molto chiara (in alto a destra nell’immagine in basso) che circonda una depressione irregolare di sospetta origine vulcanica. Probabilmente, si tratta del materiale espulso recentemente da una violentissima eruzione di tipo piroclastico. Nella stessa immagine  (in basso a sinistra) è chiaramente visibile un bacino da impatto con un doppio anello il cui diametro è di circa 290 km.

     

    Una delle immagini riprese dalla sonda Messenger durante il suo terzo ed ultimo flyby di Mercurio, in cui è visibile una regione della superficie del pianeta finora sconosciuta..

     

    Ma il risultato più interessante è stato quello ottenuto da uno degli strumenti della sonda che durante il flyby ha osservato la sottile esosfera del pianeta, rivelando come questa vari in funzione della distanza del pianeta dal Sole.
    Mentre nel corso dei primi due flyby la coda di sodio neutro era molto estesa,  adesso appariva circa 20 volte meno intensa e molto ridotta in misura. Questo comportamento è legato alle variazioni della pressione di radiazione solare al variare della distanza del pianeta dalla nostra stella, a testimonianza che l'esosfera di Mercurio è tra le più dinamiche del Sistema Solare.

     

    Immagine della tenue atmosfera di Mercurio, formata da atomi di sodio, come era nell’ottobre 2008, durante il secondo flyby, e come appariva alla fine dello scorso settembre. La pressione della radiazione solare “soffia via” la sottilissima coltre di gas che circonda il pianeta, producendo un fenomeno simile a quello di una coda cometaria.

     

    Inoltre, il calcio ed il magnesio presentano delle variazioni stagionali diverse da quelle del sodio, un comportamento che non è stato ancora completamente compreso. Lo studio dei cambiamenti stagionali di tutti i componenti della sottilissima atmosfera del pianeta fornirà informazioni chiave sull'importanza relativa dei processi che generano, sostengono e modificano il tenue inviluppo di gas che circonda Mercurio. Il terzo flyby ha inoltre rivelato nuove informazioni sulle abbondanze di ferro e titanio sulla superficie del pianeta.
    La sonda ha completato quasi tre quarti del suo lunghissimo viaggio interplanetario di poco meno di 8 miliardi di chilometri, prima di entrare in orbita polare attorno a Mercurio nel marzo 2011.

  • Osservato un pezzo dell’ “ossatura” dell'Universo

    E’ noto ormai da tempo che l’Universo su grande scala ha una struttura “spugnosa”, caratterizzata da lunghi filamenti costituiti da galassie e ammassi di galassie e da enormi vuoti. La materia che forma l’Universo, infatti, non è distribuita in maniera uniforme: le stelle sono riunite in galassie, le galassie in gruppi e in ammassi e superammassi di galassie. Le teorie cosmologiche accettate prevedono che la materia si aggreghi su una scala ancora più ampia, nella cosiddetta “rete cosmica”, in cui enormi filamenti di galassie attraversano il vuoto cosmico, creando una gigantesca struttura reticolare.

    Da diversi anni i cosmologi cercavano le prove della presenza di questi filamenti di galassie nell'universo più lontano, dove ancora mancava una solida prova della loro esistenza. Si tratta di strutture le cui lunghezze hanno valori tipici di decine di milioni di anni luce e costituiscono una sorta di “scheletro” dell'Universo: le galassie si accumulano in questi filamenti, e immensi ammassi di galassie vanno a formare le loro intersezioni.

     

    Immagine 3D della struttura di un piccolissimo “spicchio” di Universo. Finora, non ci si era mai spinti così lontano nella determinazione  della distribuzione delle galassie su grande scala. I punti in rosso rappresentano le galassie che formano la nuova struttura rilevata da questo studio.

     

    Adesso, un gruppo di astronomi dell’European Southern Observatory (ESO), coordinato  da Masayuki Tanaka, è riuscito a scoprire una grande struttura intorno ad un ammasso di galassie distanti in immagini ottenute nel corso di una serie di impegnative campagne osservative effettuate con alcuni dei più potenti telescopi attualmente disponibili. Per analizzare la struttura con maggiore dettaglio si è fatto ricorso a osservazioni spettroscopiche ottenute grazie agli strumenti VIMOS del Very Large Telescope (VLT) dell'osservatorio di Monte Paranal (ESO, Cile) e FOCAS del telescopio Subaru, operativo presso l'osservatorio astronomico nazionale giapponese situato sulla vetta del vulcano spento Mauna Kea (Hawaii). Tutti i telescopi usati in questa ricerca hanno un’apertura di 8 metri.

    Grazie a queste e ad altre osservazioni, gli astronomi hanno potuto identificare diversi gruppi di galassie che circondano l’ammasso principale, almeno 10.000 volte più massiccio della Via Lattea, distinguendo decine di questi aggregati, ciascuno dei quali ha una massa che va da alcune decine ad alcune migliaia di volte quella della nostra Galassia.

    E' la prima volta che si è riusciti a osservare una struttura dell'universo distante così importante e così ricca di informazioni. Adesso, secondo Tanaka “possiamo passare dalla 'demografia', cioè dal censimento degli oggetti presenti che abbiamo appena concluso, alla 'sociologia', ovvero allo studio delle proprietà delle galassie che dipendono dal loro ambiente, in un'epoca in cui l'universo aveva un'età pari a solo due terzi dell'età presente.”

    Il filamento di galassie osservato si trova ad oltre 7 miliardi di anni luce da noi e si estende per almeno 60 milioni di anni luce, anche se probabilmente tale struttura si estende anche oltre le capacità osservative attuali. Per questo motivo occorreranno ulteriori osservazioni, già pianificate, per ottenere una stima definitiva delle sue dimensioni.

  • La sonda Cassini si tuffa nei geyser di Enceladus

    La sonda Cassini, che da più di 5 anni sta esplorando il sistema di Saturno, lunedì scorso ha effettuato il passaggio più ravvicinato al  satellite Enceladus, immergendosi nei pennacchi di vapore d’acqua ghiacciato che fuoriescono dalla superficie di questa misteriosa luna. I dati raccolti, una volta esaminati, potrebbero consentire di rilevare molecole organiche relativamente complesse frammiste al materiale eiettato nello spazio.

    I geyser di Enceladus, emessi da lunghe fenditure  presenti sulla superficie della regione polare meridionale, furono scoperti dalla sonda  Cassini nel 2005. Le cause che sono all'origine di questi pennacchi sono ancora in discussione, ma c'è la sensazione che sotto uno strato di ghiaccio superficiale relativamente spesso sia presente dell’acqua liquida, un ambiente potenziale per l’eventuale sviluppo di una qualche forma di vita a livello batterico.

     

    Immagine di Enceladus ottenuta lo scorso 2 novembre dalla sonda Cassini mentre si stava avvicinando al satellite saturniano, prima di attraversare il getto di vapore ghiacciato ad un’altezza dalla superficie di soli 100 km.


    Finora, la Cassini aveva mantenuto una prudente distanza dalla parte più densa del pennacchio, volando a non più di 260 chilometri dalla superficie del satellite, ma i responsabili  della missione hanno ora cambiato politica, dopo aver stabilito che i minuscoli granelli  di ghiaccio che formano gli estesi pennacchi non rappresentano un pericolo per la sonda per i suoi strumenti.
    Lunedì scorso la sonda è arrivata a soli 100 chilometri dal polo sud di Enceladus, laddove i giganteschi “spruzzi” ghiacciati fuoriescono dalle cosiddette “strisce di tigre”, famose strutture morfologiche superficiali della luna che sono localizzate in corrispondenza delle lunghe fratture. L’enorme mole di dati raccolta nel corso di questi passaggi è ancora in fase di trasmissione alle stazioni di terra, con la speranza, una volta che saranno analizzati, di poter trovare qualcosa di inatteso e finora sconosciuto.
    Dato che il pennacchio è più denso avvicinandosi alla superficie, l'ultima “immersione” potrebbe rivelare molecole finora non scorte ad altezze maggiori, comprese quelle che potrebbero denunciare un accenno alla presenza di una qualche forma di vita microbica.
    Recenti misure basate sul rapporto delle abbondanze di alcuni isotopi indicano che la composizione di Enceladus è stranamente simile a quella delle comete. Ciò farebbe pensare che questa luna saturniana potrebbe non essersi formata nei pressi di Saturno ma in regioni più esterne del nostro sistema planetario.
    Nel prossimo aprile 2010 la Cassini potrebbe effettuare un tuffo ancora più profondo, ma senza utilizzare i propulsori di bordo, in modo da misurare con estrema precisione l'effetto gravitazionale della luna sulla sonda, permettendo così di determinare molto accuratamente la sua massa.

  • Alcuni batteri possono sopravvivere su Marte

    Il problema riguardo alla possibilità che su  Marte possa esistere una qualche forma di vita è aperto da tempo e sono ormai molte le missioni spaziali che sono state inviate sul pianeta rosso nella speranza di trovare qualche traccia di attività biologica, ma ancora non disponiamo degli elementi che abbiano risolto questo en igma.

    Adesso, una serie di esperimenti condotti in  Italia, simulando l’ambiente marziano e i suoi effetti su alcuni tipi di batteri terrestri, ha dimostrato che alcuni tipi di microorganismi possono resistere per tempi relativamente lunghi alle condizioni estreme presenti sul pianeta, che, per le sue condizioni superficiali, è il più simile alla Terra.

    Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Padova ha simulato le condizioni esistenti sulla superficie di Marte e i suoi effetti su alcuni ceppi di batteri per controllare la loro resistenza a questo ambiente extraterrestre. Il simulatore, denominato LISA (Laboratorio Italiano Simulazione Ambienti), riproduce le condizioni marziane, con temperature che vanno da +23 a – 80 °C, un’atmosfera con il 95% di anidride carbonica, una pressione compresa tra 6 e 9 millibar (meno di 1/100 di quella terrestre) e un intenso flusso di radiazione ultravioletta (Marte non è protetto da una fascia di ozono come la Terra). Il risultato degli esperimenti è stato molto promettente: alcuni tipi di batteri sono sopravvissuti per 28 ore in queste condizioni estreme.

     

    Immagine al microscopio del Bacillus Pumilus, uno dei microorganismi che sembra resistere meglio alle estreme condizioni dell’ambiente marziano.

     

    Due di queste famiglie di batteri – Bacillus Pumilus e Bacillus Nealsonii – sono  usati comunemente in esperimenti di laboratorio dove vengono simulate condizioni molto particolari per controllare gli effetti indotti in questi microorganismi, in quanto producono delle endospore quando vengono stressati. Le endospore sono strutture interne dei batteri che incapsulano il DNA e parte del citoplasma in una specie di guscio spesso, al fine di prevenire il loro danneggiamento.

    L’esperimento ha mostrato che le cellule vegetative dei batteri muoiono dopo pochi minuti dall’esposizione alle “condizioni marziane”, a causa della scarsissima presenza di acqua e dell’intensa radiazione ultravioletta. Quando però questi batteri vengono ricoperti da un sottile strato di ceneri vulcaniche e di ossidi di ferro sotto forma di polveri, la loro sopravvivenza è molto più elevata. Questi risultati mostrano quindi che batteri di questo tipo presenti nell’immediato sottosuolo marziano, dove sono protetti dalle radiazioni ionizzanti,  possono sopravvivere per lunghi periodi di tempo.

    Grazie a questi risultati e a quelli raccolti dalla sonda della NASA Phoenix, che lo scorso anno ha scoperto sul suolo marziano abbondanze relativamente alte di perclorati, sembra che sia proprio il caso di continuare a cercare eventuali forme di vita di tipo batterico sul pianeta rosso.

    Chiaramente, i risultati di questi esperimenti non dimostrano che su Marte esiste la vita, ma che nelle attuali condizioni e in particolari “nicchie”, ad esempio in aree dove è presente una qualche forma di attività idrotermale (su Marte esistono molti vulcani apparentemente spenti), qualche forma di attività biologica potrebbe aver trovato le condizioni adatte per potersi sviluppare.

  • Un lampo dall'universo primordiale

    GRB 090423 è la sigla cui è stato denominato un lampo gamma (Gamma Ray Burst, GRB) osservato lo scorso 23 aprile in direzione della costellazione del Leone dal telescopio spaziale Swift e che durò circa 20 secondi.

    La sua importanza scientifica risiede nel fatto che è risultato essere il lampo con il più elevato valore di spostamento verso il rosso (z=8,2) e pertanto è il più distante e il più lontano nel tempo che si fosse mai osservato. Superando inoltre qualsiasi altro oggetto celeste fino ad oggi noto.

    Tale valore di z indica che il lampo si verificò quando l'età dell'Universo era di circa 630 milioni di anni, meno del 5% di quella attuale, e che avvenne a circa 13,03 miliardi di anni luce di distanza da noi.

     

    Rappresentazione artistica di un’esplosione di raggi gamma.

     

    Molto probabilmente si è trattato della morte di una stella, e della conseguente nascita di un buco nero, in una delle più antiche generazioni stellari dell’Universo.

    I lampi di raggi gamma sono le esplosioni più luminose nell’Universo. La maggior parte si verifica quando stelle di grande massa terminano il combustibile nucleare. Nel momento in cui il nucleo  stellare collassa in un buco nero o in una stella di neutroni, getti di materia si fanno strada attraverso la stella provocando la sua esplosione. Questi getti di materia a velocità quasi relativistiche colpiscono il gas precedentemente espulso dalla stella e lo riscaldano in brevissimo tempo, producendo bagliori di breve durata, visibili in molte lunghezze d’onda.

    Da anni gli astronomi erano a caccia di lampi di raggi gamma provenienti dalle prime generazioni di stelle, fallendo misteriosamente nel tentativo. La scoperta di GRB 090423 ha rappresentato perciò un’importante tappa di avvicinamento nella ricerca tesa a localizzare esplosioni che abbiano uno spostamento verso il rosso compreso tra 10 e 20.

    Entro tre ore dal lampo del 23 aprile,  un gruppo di astronomi inglesi, usando l’United Kingdom Infrared Telescope (UKIRT) dell’Osservatorio di Mauna Kea (Hawaii), ha riferito di avere rilevato una sorgente infrarossa  nella posizione indicata da Swift. Questa esplosione fornisce una visione senza precedenti dell’era in cui l'Universo era molto giovane e si apprestava a subire grandi cambiamenti. Il buio primordiale era stato appena interrotto dalla luce delle prime stelle e le prime galassie si stavano formando. La stella che è esplosa in questo evento era un membro delle stelle della prima generazione.
    Adesso, grazie alla combinazione dei dati ottenuti con il Very Large Array (VLA) - un sistema di 27 enormi antenne radio paraboliche del diametro di 26 metri ciascuna, disposte lungo 3 assi ciascuno lungo 21 km, a formare una gigantesca Y, nel deserto del New Mexico -   e di quelli X e infrarossi provenienti da telescopi orbitanti e situati a terra, è stato possibile concludere che l’evento è stato il più energetico dei principali GRB finora osservati, e che l’esplosione, di forma pressoché sferica, ha dato origine a un tenue quanto uniforme involucro gassoso in espansione rapida.

    Esiste il fondato sospetto che le prime stelle dell'universo fossero molto diverse da quelle attuali: notevolmente più massicce, più calde e più brillanti, ed il modo migliore per distinguere queste stelle così distanti è studiare la loro morte violenta, come supernova o GRB.
    Adesso si è in attesa del completamento, previsto per il 2012, dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA), e dell’Expanded Very Large Array (EVLA) che consentiranno ulteriori osservazioni di GRB molto distanti e antichi.

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