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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2012 alle ore 11:23.

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Fotografie di Guy Calaf per ILFotografie di Guy Calaf per IL

La redazione politica di BuzzFeed è composta da sei giovani e brillanti reporter. Tutti guardano a Smith come a un mentore, ma qualcuno si lamenta delle sue telefonate alle 5 del mattino. In ufficio sono tutti seduti lungo una fila di scrivanie, a battere sui tasti dei Macbook in una stanza eccezionalmente silenziosa, ancora sprovvista di linee fisse. Quasi nessun giornalista parla al telefono, e quando Smith riceve la telefonata di una fonte va a parlare in fondo al corridoio.

Quando torna alla scrivania, Smith distoglie lo sguardo dalla cascata di tweet sul suo computer e incoraggia una giovane giornalista, Rosie Gray, a essere più aggressiva quando segue gli appuntamenti elettorali di Rick Santorum, il candidato alle primarie repubblicane. «Sì, così si incazzano e mi buttano fuori dal pullman», replica lei. In un altro momento della giornata, Smith passa una preziosa raccolta di vecchi materiali su Newt Gingrich al suo ricercatore, Andrew Kaczynski, uno studente del college che è diventato una piccola celebrità per aver scovato video dimenticati in cui i politici dicevano cose sconvenienti.

«Perché non fai i 50 migliori documenti della campagna di Newt Gingrich del 1983?», chiede Smith a Kaczynski, che tiene la testa girata di lato, verso lo schermo. Il mattino seguente, BuzzFeed pubblica un pezzo intitolato: «Esclusivo: i 30 documenti più interessanti dagli archivi di Newt». Sono le stesse discussioni che si potrebbero ascoltare in qualsiasi redazione, ma certi frammenti di conversazione sono difficili da immaginare in un altro contesto: una redattrice va a una riunione «nella sala conferenza LOL», un redattore osserva che «Dogs against Romney ormai è ovunque» e un altro interrompe una conversazione per chiarire: «A proposito, non ritwittarlo. È off the record».

Nell'universo di Twitter e nella galassia di BuzzFeed tutto è lecito, tutti partono alla pari. È la qualità della notizia, non il brand della testata, a decidere che cosa viene letto e che cosa no. In questo mondo meraviglioso, la cosa più pregiata resta il buon vecchio scoop, come quello realizzato da Smith in Iowa sull'endorsement di John McCain all'ex rivale Mitt Romney.

Il web ha bisogno di qualcosa di cui parlare e va ghiotto di segreti svelati, intuizioni originali e osservazioni brillanti. La capacità di fare scoop, di fornire notizie attendibili o anche di indirizzare i lettori su informazioni rivelatrici o umoristiche fa di Smith una fonte fidata nel piccolo, ma potente, universo dell'informazione. Persone come Smith diventano potenti arbiter di quello di cui la gente parla e sono loro, alla fine, a decidere chi viene eletto. «Ben porta scoop, e gli scoop sono merce condivisibile», dice Jon Steinberg, presidente di BuzzFeed ed ex dirigente di Google che se ne sta seduto nel suo ufficio dalle pareti di vetro calzando un paio di Adidas nere. «Noi ci limitiamo a scrivere notizie che la gente ha voglia di condividere. È il contrario di quello che ci avevano insegnato i nostri predecessori sul mondo dell'informazione». L'immediato predecessore di BuzzFeed è l'Huffington Post, che fece il suo ingresso in scena durante la precedente tornata elettorale. Il fondatore di BuzzFeed, Jonah Peretti, ha avuto un ruolo chiave nella strategia dell'Huffington Post, quella soprannominata mullet, dal nome del taglio di capelli corto davanti e lungo dietro: tutte le notizie serie sul davanti e tutte le notizie leggere, con tonnellate di slide show sui gatti, sul retro. Peretti era maestro nell'attirare lettori verso l'Huffington Post, ma quando l'anno scorso Aol ha comprato il sito si è convertito in fervente sostenitore del modello social.

Arianna Huffington, la fondatrice dell'Huffington Post, è convinta che ci sia spazio a sufficienza per entrambi i modelli. «L'Huffington Post intrattiene da tempo rapporti con BuzzFeed e siamo felicissimi di vedere che si sta espandendo», dice. «Da quanto abbiamo lanciato la nostra testata dico sempre che è finita l'epoca dei giochi a somma zero, in cui se qualcuno guadagna qualcun altro deve perdere. Espandere la penetrazione delle notizie va a vantaggio di tutti. Ben è un grande acquisto».

Un acquisto anche redditizio. Poco dopo il suo arrivo, BuzzFeed ha annunciato investimenti addizionali per 15,5 milioni di dollari. Presto gli sarà affidata una redazione sempre più grande, con giornalisti che scriveranno di tecnologia, tematiche femminili, sport e animali. (Nessuno è disposto a rinunciare al traffico internet generato dai gatti.) Presto potrà anche ricominciare a firmare i suoi pezzi: quelli di Politico, irritati per la sua partenza, non gli hanno permesso di firmare articoli fino all'estate. (A febbraio il Washington Post titolava: «Liberate Ben Smith!».)

Nato e cresciuto nell'Upper west side di Manhattan, Smith ha frequentato scuole private prima di andare a Yale a studiare linguistica (2). Nell'estate del 1998 ha fatto uno stage estivo al Jewish Forward, dove ha sviluppato una passione per la politica ebraica. Dopo il college è entrato all'Indianapolis Star, dove si occupava di cronaca nera: fra i criminali di cui ha scritto c'era un suo quasi omonimo, Benjamin Smith. («Mia madre mi diceva di non uscire di casa», racconta.) La redazione dell'Indianapolis Star aveva solo un computer con accesso internet. Smith vide una pubblicità del Baltic Times e andò in Lettonia a scrivere dei processi ai criminali di guerra nazisti e a collaborare con il Wall Street Journal Europe. A una conferenza della Banca Mondiale incontrò sua moglie. Nei giorni successivi all'11 settembre, Smith frequentava un internet cafè di Kiev, assieme a un gruppo di ufficiali dell'esercito pakistano («Ripensandoci, un'occasione giornalistica sprecata», dice), per consultare ossessivamente Drudge Report, il blog di Andrew Sullivan e Talking Point Memo.

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